Exit strategy: un “surge” al contrario per vincere in Afghanistan

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Exit strategy: un “surge” al contrario per vincere in Afghanistan

14 Marzo 2009

Surge!” intimò Gesù a Lazzaro, nella versione latina dei Vangeli. E il defunto resuscitò da morte. “Surge!” sentenziò il generale Petraeus un paio di millenni dopo, in un’altra lingua. E la guerriglia irakena fu sconfitta. La stessa parola, miracolosa nel primo caso e magica nel secondo, funzionerà anche in Afghanistan, Paese altrimenti noto come “cimitero degli imperi”? Molti ci scommettono, ma seri dubbi permangono, ed è proprio su questi seri dubbi che vale la pena di soffermarsi.

Cosa significherebbe il “surge”, così come lo intende l’amministrazione USA? Ora in Afghanistan (30 milioni di abitanti) sono schierati 60.000 soldati stranieri. Pochissimi: fatte le debite proporzioni, è come se in Libano i caschi blu fossero una ventina. Quanti soldati servirebbero? Secondo uno studio della RAND Corporation occorrerebbero 20 soldati ogni 1.000 abitanti, così come è stato fatto, con successo, in Bosnia e Kosovo. Obama ne intende mandare altri 24.000, schierabili in 12-18 mesi. Ma alla fine di questo mini-surge le truppe non saranno nemmeno raddoppiate e a stento raggiungeranno le 100.000 unità, il medesimo numero massimo che non evitò la disfatta dell’armata rossa. Invece, per arrivare al rapporto 20/1000 auspicato dal celebre istituto di ricerca, vale a dire 600.000 soldati, gli attuali 60.000 andrebbero decuplicati: un’impresa al di là di ogni immaginazione. Ma è anche da sottolineare che lo studio della RAND si riferisce soprattutto a missioni di stabilizzazione e ricostruzione, non a quelle di controinsurrezione, dove il “surge” non ha mai risolto alcunché. Nemmeno in Iraq per la verità, dove il successo americano non è dipeso tanto dall’avere aumentato i soldati di 30.000 unità quanto piuttosto dal fatto che certe tribù della provincia di Al-Anbar sono state convinte a passare dalla parte della coalizione. 

Cosa implicherebbe l’aumento quantitativo delle truppe? A fronte di vantaggi tutti da dimostrare, gli svantaggi sarebbero certi ed inevitabili, come l’aumento dei bersagli per la guerriglia e l’aumento dei morti per la coalizione, l’aumento dei casi di “post-traumatic stress disorder” (ne soffrono già 300.000 soldati USA e il consumo giornaliero di calmanti e antidepressivi da parte dei soldati sta superando i dati di ogni statistica precedente), l’aumento dei casi di militari suicidi (dal 2005 al 2008 i casi nell’esercito USA sono andati sempre aumentando fino a raggiungere, l’anno scorso, il numero di 128), l’aumento dell’odio in Afghanistan verso l’occupante straniero, l’aumento dell’impiego -o spreco che dir si voglia- di denaro (il Pentagono prevede ulteriori 7,3 miliardi di dollari, che dovranno essere sborsati da un Paese economicamente già in ginocchio) e una sempre maggiore possibilità che le opinioni pubbliche occidentali perdano la pazienza, dal momento che i risultati non si vedono. E infine il surge implicherebbe necessariamente più rifornimenti logistici, ma gli itinerari di rifornimento sono precari e insicuri. 

I rifornimenti logistici via mare richiedono tempi enormi fino ai porti del Pakistan, dopodichè bisogna affidarsi alle precarie vie terrestri. Queste sono estremamente vulnerabili: non appena Obama si è insediato, all’inizio di febbraio, i talebani (con un atto che sembrava un chiaro avvertimento al neo Presidente americano) hanno fatto saltare il ponte presso il Kyber Pass, fra Pakistan e Afghanistan, tagliando i rifornimenti alla NATO).

Gli assi di rifornimento che attraversano Russia e Centrasia, invece, sono meno insicuri ma molto più lunghi. E soprattutto il loro uso può essere soggetto ai molteplici ricatti russi: vi diamo gli itinerari di rifornimento se la NATO e gli USA rinunciano ad includere Ucraina e Georgia nell’Alleanza, a schierare truppe nei Paesi baltici, ad installare difese missilistiche in Europa centrale, a fare progetti di influenza sull’Asia centrale. E poi non dimentichiamo l’implicito avvertimento: “e ricordatevi che l’Europa centro-orientale dipende dal gas russo: abbiamo già chiuso i rubinetti all’Ucraina…”. Obama, dunque, che vuole il “surge”, è in posizione di svantaggio: è ricattabile dalla Russia e non può contare su certi alleati europei come la Germania, poco incline a confrontare la Russia sulla questione delle linee di rifornimento verso l’Afghanistan. Le linee di rifornimento aeree, poi, necessitano di aeroporti nella regione, come quello di Manas, in Kirghizistan. 

La telenovela di Manas è iniziata con il suo primo affitto nell’autunno 2001 (si veda anche l’articolo di Lorena Di Placido “Mosca segna un punto in Kirghizistan ma Washington non resta a guardare”), dopodichè da parte kirghiza Manas, più che un avamposto della GWOT, la guerra globale al terrorismo, è sempre stato concepito come una miniera di denaro, da cui trarre il massimo vantaggio economico. Nel 2001 il padre-padrone kirghizo era Askar Akayev e gli USA pagavano a lui e ai suoi cleptocrati le tasse di atterraggio/decollo dalla base così come erano stabilite dall’aviazione civile internazionale: strano, per un’operazione militare. Nel periodo fra il 2001 e il 2005 gli USA hanno sborsato svariati milioni di dollari per servizi connessi alla base e per il rifornimento di carburante a compagnie controllate dalla famiglia di Akayev. Nessuna di quelle spese figura nella contabilità dello Stato kirghizo, al contrario, un’indagine dell’FBI ha stabilito che quel denaro è finito su conti bancari esteri controllati dalla famiglia di cui sopra. Nel marzo del 2005 arriva la “rivoluzione dei tulipani”, ma poco cambia. Il nuovo presidente Bakiyev pretende dagli USA un “piccolo aumento”: non più 2 milioni di dollari all’anno per Manas, ma cento volte tanto: 200 milioni di dollari. Dopo un anno di tira e molla, nel luglio 2006 si giunge ad un compromesso: gli USA pagano “solo” 150 milioni di dollari all’anno. Ma ancora una volta le rendite finiscono nelle tasche del regime. Dopo la firma di quell’accordo, una serie di incidenti porta a chiedere di alzare ulteriormente il prezzo. Nell’incidente più grave, a dicembre del 2006, un militare USA uccide un camionista kirghizo all’ingresso principale dell’aeroporto scambiandolo per un terrorista armato (in realtà non portava armi). Infine, durante il recente incontro a Mosca fra Bakiyev e Medvedev, Mosca ha convinto Bishkek offrendo 2 miliardi di dollari in più rispetto all’offerta globale americana. Cosa dovrebbero fare gli USA, cedere al ricatto continuando la corsa al rialzo o abbandonare Manas, lasciando il Kirghizistan al suo destino? La seconda opzione è la più ragionevole ma non è detto che prevarrà sulla prima. 

Le possibili soluzioni del dilemma sono sostanzialmente tre. La prima è di continuare -come si sta facendo oggi- ad aumentare l’impegno militare, vivendo alla giornata per un indefinito numero di decenni. Lo ha fatto chiaramente intendere il segretario alla difesa Gates: “Questa è una guerra ideologica, e l’ultima guerra ideologica che abbiamo combattuto è durata 45 anni”, riferendosi alla guerra fredda. Inutile sottolineare che questa possibilità non dà garanzie di riuscita.

La seconda è quella di lasciare l’Afghanistan agli Afgani come si fece in Vietnam con la vietnamizzazione, ma il Paese è ancora troppo debole per essere lasciato camminare da solo. La terza soluzione è quella di regionalizzare la crisi, non certo nel senso di esportarla, ma in quello di responsabilizzare le organizzazioni regionali, prima fra tutte la Shanghai Cooperation Organization, visto che tutti i Paesi confinanti con l’Afghanistan sono membri o osservatori della SCO. 

Regionalizzare la crisi, in pratica, significa cooperare di più e meglio fra organizzazioni regionali. NATO e SCO, pertanto, dovrebbero smettere di ignorarsi a vicenda o di aspettare che sia l’altra a fare il primo passo. E’ urgente lanciare una cooperazione profonda e strutturata fra NATO e SCO, possibilmente da subito. Anche perché la NATO è lì per andarsene, mentre la SCO è lì per rimanervi.

L’ONU, che nel suo consiglio di sicurezza ha i maggiori Paesi sia della NATO che della SCO, sancisca una “staffetta afghana” fra le due organizzazioni in tempi ragionevolmente rapidi. Russia e Cina non possono continuare a dosare perfidia e opportunismo sperando che la NATO fallisca e che contemporaneamente vinca in Afghanistan: entrambe hanno interesse a risolvere la crisi afghana, perché in caso contrario l’instabilità e la minaccia integralista islamica si diffonderebbero senza freni nella Russia meridionale, in Centrasia e in Sinkiang. Nel frattempo, mentre la SCO sigilla i confini afgani e stronca il flusso di oppio (e qui vanno individuate coltivazioni alternative), USA e NATO dovrebbero concretizzare una strategia basata sui seguenti punti: gravitare sulle attività di governance e sviluppo, combattere la corruzione dilagante, dialogare con i movimenti moderati, fossero anche talebani, ridurre progressivamente la presenza militare in maniera non negoziata ma unilaterale, cosa che toglierebbe all’insorgenza ogni motivo di lanciare appelli al jihad, continuare ad addestrare l’esercito afgano e la polizia locale e responsabilizzarli, incrementare le attività di intelligence, puntare dove necessario sulle “covert operations” da parte di forze speciali che sfruttino quell’intelligence, ricorrere (ma solo quando non se ne può fare a meno) al potere aereo, magari evitando di ammazzare i civili (dei 2.118 uccisi nel 2008, quelli morti per mano della coalizione e delle forze afgane sono stati 552) e aiutare i vicini Paesi a rischio (come il Pakistan) a contrastare efficacemente l’estremismo. 

Ma aumentare le truppe convenzionali per combattere un nemico non-convenzionale, e per giunta senza poter disporre di itinerari di rifornimento adeguati e sicuri, non dà alcuna garanzia di successo.