Faisal Shahzad alla sbarra si dichiara colpevole “una e 100 volte ancora”

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Faisal Shahzad alla sbarra si dichiara colpevole “una e 100 volte ancora”

23 Giugno 2010

Ha detto di volersi dichiarare colpevole “una e cento volte ancora” Faisal Shahzad, il pachistano naturalizzato americano, accusato di aver piazzato l’autobomba a Times Square lo scorso 1 maggio. Lo ha fatto, per la prima volta dal fallito attentato, al cospetto di una corte federale a New York che dovrà giudicarlo su dieci imputazioni tra cui i gravissimi – e per i quali è prevista la reclusione a vita – tentato atto di terrorismo, possesso di arma da fuoco e tentativo di utilizzare un’arma di distruzione di massa.

Con la completa ammissione di colpa, fatta con estrema lucidità e fermezza, lo scopo di Shahzad appare chiaro, come lo stesso ha dichiarato in aula: “far arrivare il messaggio che se gli Usa non se ne andranno dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Somalia e non smetteranno di interferire nei paesi musulmani, noi li attaccheremo ancora”. L’uomo, divenuto cittadino americano l’anno scorso, aveva parcheggiato la sera del 1 maggio la sua automobile al centro di Times Square dopo averla caricata di esplosivo. Un venditore ambulante aveva notato del fumo provenire dalla vettura e aveva chiamato la polizia. L’auto non era esplosa. Shahzad era stato, poi, arrestato due giorni dopo il fallito attentato, mentre saliva su un aereo diretto a Dubai.

Il grand jury, che ha preparato l’atto d’accusa, ha anche formalmente coinvolto i talebani pachistani nella preparazione dell’attentato, ciò a dispetto di quanto sostenuto fin’ora dallo stesso Shahzad che ha ammesso sin da subito e senza remore le sue responsabilità, ma asserendo si aver agito da solo. “Faisal Shahzad è stato addestrato all’uso di esplosivi nel dicembre 2009 in Waziristan, in Pakistan, da parte di esperti membri di Tehrik-i-Taliban, un gruppo di militanti estremisti con base in Pakistan che gli hanno fornito 12.000 dollari per l’operazione”, hanno fatto sapere gli inquirenti. Shahzad non si è mai mostrato pentito per quanto accaduto due mesi fa nel cuore di New York, neppure quando il giudice federale, Miriam Cedarbaum, qualche ora fa, lo ha posto di fronte all’ipotesi di carneficina che avrebbe potuto causare se l’attentato fosse stato messo a segno. “Mi ritengo un soldato musulmano e non considero la mia azione un crimine”, queste le dichiarazioni tremendamente lucide del terrorista.

Sembra di ritrovarci sul set di un film già visto qualche mese fa: quello del processo allo stragista Khaled Sheik Mohammed e la “banda di Amburgo”,  per gli attentati dell’11 settembre, in un tribunale federale di New York. In quella circostanza Obama aveva prospettato la pena di morte ma era stato lo stesso KSM a chiederla: “Voglio essere giustiziato. Il mio sarà il primo Jihad giudiziario contro gli Usa”. Il fatto è che per quanto la Casa Bianca si sforzi di mostrarsi risoluta e sia pronta a far scontare ai condannati la pena secondo le leggi americane, quelle stesse leggi sono fallibili come ogni sistema umano. Nonostante Guantanamo e la pena di morte, ci sono, infatti, la presunzione di innocenza e tribunali degni di uno stato democratico, che per personaggi senza scrupoli come Shahzad non sono altro che forme di debolezza occidentale sfruttabili, volendo, a proprio favore.