Famiglia Cristiana preferisce attaccare il Cav. piuttosto che raccontare la verità
07 Gennaio 2009
«Le famiglie in grave difficoltà, ma i politici hanno altri interessi» è il sommario dell’editoriale del primo numero di Famiglia Cristiana del 2009 affidato a Beppe del Colle dal titolo «Governo sempre più forte e paese sempre più povero». Detti così, titolo e sommario lasciano presagire la lettura di un’analisi dei problemi, veri e reali, che sono costretti ad affrontare quotidianamente gli italiani e, in particolare, quelli che hanno figli in groppa: le famiglie, insomma.
All’inizio dell’anno, uno stimolo del genere ti riverbera dentro: suona come una pacca amichevole sulla spalla. Ti accingi alla lettura con la speranza di ritrovare tra le righe del testo utili suggerimenti e intuizioni che possano finalmente illuminare i politici. Invece? Niente di tutto questo. E la parola «famiglia» non ricompare più nelle 3.500 battute che compongono l’articolo.
Intanto che l’interesse è stato alzato ai livelli alti («famiglie-difficoltà», binomio infallibile a trarre attenzione!) è somministrato dolcemente il vero messaggio. Che non riguarda la famiglia, ma gli attuali parlamento e governo del paese: l’esistenza di una (presunta o vera) «strategia politica chiara e determinata verso un preciso obiettivo: tutto il potere sostanziale nelle mani di una sola persona». Oltre questo e oltre la notizia dell’uscita del ventesimo libro di Marco Travaglio su Berlusconi (che è verissima, soprattutto per le casse finanziarie dell’ autore e dell’editore), nel resto dell’editoriale è dato leggere solo un’ altra osservazione. E’ in chiusura del pezzo per giustificare la legittimità di «qualche dubbio sulle riforme promesse» dal governo e che, secondo l’Editorialista, si concentrano essenzialmente su presidenzialismo, federalismo e riforma della Giustizia (nel loro insieme fanno disegno della strategia politica in atto). L’affermazione è questa: che «il quinquennio berlusconiano 2001-2006, con una maggioranza stabile, si ricorda quasi solo per la parziale depenalizzazione del falso in bilancio».
Arriviamo al dunque (verrà perdonata la lunga premessa: si reputava necessaria per capire lo spirito movente dell’intero articolo). Il «dunque» è questo: quanta franchezza c’è in quell’ultima affermazione? Chi scrive è certo che l’Editorialista ha usato la sua massima onestà intellettuale. Qualche «dimenticanza», dunque, merita assoluzione: va ricompresa nel «quasi» utilizzato nell’affermazione e che vuole significare dunque «le altre cose» non dette. Tra queste cose non dette, allora, bisogna ricordare la riforma del lavoro e, prima di questa, la morte di Marco Biagi, il giuslavorista a cui è stata intitolata la riforma dal governo Berlusconi 2001-2006. Marco Biagi, che dal 2001 ricopre l’incarico bipartisan di consulente del ministro del Welfare, Roberto Maroni, e del presidente della Commissione europea, Romano Prodi, muore a Bologna la sera del 19 marzo 2002, all’età di 51 anni, vittima di un attentato terroristico delle Brigate Rosse. Si potrebbe, anzi andrebbe detto tanto dell’Intelligenza lungimirante di questo riformista del diritto del lavoro. In questa sede è sufficiente ricordare che Marco Biagi è il Padre della riforma del lavoro che vede la luce con la legge n. 30 del 2003. Una riforma che ha fatto tanto discutere e che ancora fa parlare. Che ha portato l’indice Istat di disoccupazione dall’8% del 2004 al 6,1% al 30 settembre 2008 (dati del 18 dicembre 2008). Se questi numeri non dicono nulla, si sottoscrive quanto afferma Famiglia Cristiana a proposito del quinquennio berlusconiano 2001-2006. Ma a patto che si abbia almeno il pudore di ricordare chi, per migliorare la vita di questa nazione e delle «famiglie» italiane, ci ha rimesso addirittura la sua.