Federalismo fiscale e Mezzogiorno tra critiche e fatti
13 Settembre 2011
Recentemente il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, ha espresso il suo parere sulla manovra finanziaria sostenendo che affosserà definitivamente il federalismo fiscale. Non è l’unico ad esprimere delle critiche all’interno del centrodestra, come ci sono anche coloro che giudicano invece eccessivi e inappropriati giudizi del genere: tutto va comunque a conferma del fatto che su una questione così articolata c’è, come è giusto che ci sia, un dibattito che punta a sollevare quelle criticità che la fase di messa a punto del federalismo fiscale comporta, tenuto anche conto del fatto che esso si inserisce in un’architettura istituzionale in evoluzione e in un sistema economico che sta affrontando una grave crisi.
Tanti, dunque, sono i nodi da sciogliere, tra cui quello del riparto delle risorse tra le Regioni e lo Stato centrale, tornato prepotentemente sulla scena con la manovra e indubbiamente legato alla tematica federalista. Ma la questione va indietro nel tempo, visto che sono almeno vent’anni che se ne discute, in particolare da quando un partito, la Lega Nord, ne ha fatto il suo vessillo.
Destra contro sinistra, Nord contro Sud, Regioni a statuto ordinario contro Regioni a statuto speciale: un fiume di polemiche che sono sfociate spesso nell’immobilismo politico. Nonostante ciò, il Governo di centrodestra ha posto al centro del suo programma elettorale il federalismo fiscale, forte di un’ampia maggioranza parlamentare. E si deve rilevare come persino Bill Emmott, che è stato direttore dell’Economist e non è certo amico di Silvio Berlusconi e del suo governo, abbia scritto nel suo libro Forza, Italia! (Rizzoli, 2010) che il federalismo fiscale è la migliore idea politica italiana degli ultimi vent’anni. Su un tema così cruciale e al centro del dibattito politico è dunque il caso di porre la lente di ingrandimento, analizzandone i fondamenti e anche gli aspetti più controversi ma, soprattutto, individuando i punti cardine della cosiddetta “via italiana” al federalismo fiscale.
Federalismo e federalismo fiscale
Partiamo con qualche nozione utile a sgombrare il campo da inesattezze e imprecisioni, purtroppo assai frequenti sul tema. Il termine federalismo deriva dal latino foedus (trattato) e designa le teorie politiche della federazione. Come affermato nel Dizionario di Politica a cura di Bobbio-Matteucci-Pasquino, attorno a tale espressione c’è una certa confusione di significati. Per alcuni, infatti, il federalismo è la teoria dello Stato federale; per altri, invece, il federalismo è un concetto più ampio, che ha come referente una visione globale della società. In ogni modo, il federalismo è stato ben descritto da Carl Joachim Friedrich, che ne ha parlato in termini di federalizing process, e cioè di un processo dinamico attraverso il quale le comunità politiche di un territorio tendono a ripartire il potere tra i diversi livelli di governo.
Ci sono, poi, elementi propri di uno Stato federale. Innazitutto, l’autonomia legislativa residuale in capo al singolo territorio; ma anche un assetto di poteri centro/periferia equilibrato; e, ancora, una giustizia costituzionale arbitro dei conflitti fra il governo centrale e il governo periferico. Sotto il profilo istituzionale, uno Stato federale ha solitamente una camera parlamentare rappresentativa delle singole realtà territoriali. Il potere giudiziario si manifesta sotto forma di una giustizia decentrata sul territorio e l’assetto dei poteri in loco è regolato da una costituzione locale in armonia con quella nazionale, garantendo anche la possibilità di consentire il distacco/aggregazione di enti locali da un territorio all’altro.
Tra gli elementi cardine, last but not least, c’è l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa in capo ai singoli territori: il federalismo fiscale, appunto. E come è stato notato dal costituzionalista Tommaso Edoardo Frosini “federalismo che vai, federalismo fiscale che trovi”: non basta essere uno Stato federale per avere un certo tipo di struttura fiscale spalmata sul territorio o, meglio, non c’è un solo tipo di struttura fiscale, ma piuttosto ve ne sono varie tipologie.
Del resto, come è stato osservato da Giuliana Giuseppina Carboni in un saggio dedicato al federalismo fiscale e pubblicato sulla rivista Diritto Pubblico Comparato ed Europeo (n. 4, 2009) “La possibilità di applicare i principi del fiscal federalism a Stati con un’organizzazione costituzionale molto diversa, che spesso riflette un diverso spirito del costituzionalismo che ne ha accompagnato la nascita, non implica il conseguimento di risultati equivalenti”.
La struttura fiscale, in sintesi, varia a seconda delle diverse realtà statuali e della loro architettura costituzionale e non si può pensare di trasferirne una tipologia da uno Stato all’altro mantenendone invariati i caratteri specifici.
La questione federalista in Italia e il problema del Sud
Fatta questa premessa, analizziamo nello specifico il caso italiano. Il dibattito federalista nel nostro Paese risale addirittura al periodo dell’Unità d’Italia. Si può pensare agli scritti di Carlo Cattaneo, di Antonio Rosmini, o alle proposte legislative di Marco Minghetti, deputato della Destra storica che, a differenza della maggioranza dei suoi colleghi parlamentari, era contrario all’idea centralista dello Stato, che portò all’estensione tout court dello Statuto Albertino a tutta la Penisola, essendo favorevole a soluzioni che tenessero conto delle diverse realtà storico-sociali.
E come ha avuto modo di scrivere Claudia Petraccone in Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità a oggi (Laterza, 1995), il dibattito federalista si acuisce nei momenti di crisi. È ovvio, infatti, che una situazione di crisi finanziaria grave porti ad un ripensamento dell’assetto istituzionale.
Non a caso la Lega Nord – il partito che attualmente ha più a cuore la tematica del federalismo – si sviluppa durante il periodo di Tangentopoli, quando la Prima Repubblica è spazzata via dalle inchieste giudiziarie. Fu allora che l’ideologo della Lega Nord, il professor Gianfranco Miglio, lanciò la sua idea di una nuova Costituzione per l’Italia: suddivisione in macroregioni a fortissima autonomia fiscale, secondo il principio per cui le risorse sono della comunità che le produce. Si doveva prendere atto del fatto che l’Italia fosse divisa in comunità diverse per storia, tradizioni, mentalità.
Ma in quegli anni si occupava di federalismo fiscale anche l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, con Giuseppe Vitaletti, ha scritto un libro dal titolo Il federalismo fiscale (Laterza, 1994) dove, preso atto del fallimento del sistema fiscale italiano, lo si ripensava in maniera tale da valorizzare le autonomie locali. Per Tremonti e Vitaletti “il federalismo o è fiscale o non è”: il baricentro della tassazione deve essere spostato, dunque, dal centro alla periferia, cioè ai Comuni e alle Regioni, più vicini ai cittadini.
Oggi, a distanza di anni, sono in molti a pensare che il federalismo fiscale potrebbe essere la medicina per guarire molti mali del Paese e, in particolare, del Sud. Ad esempio Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri, che nel loro libro Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno (Rubbettino, 2008) sostengono che, anziché invocare una maggiore redistribuzione delle risorse a loro favore, la classe politica e l’opinione pubblica meridionale debbano accettare la sfida della competizione tra territori e proporre al Centro-Nord uno scambio: la riforma federale e l’abolizione di ogni sussidio in cambio dell’abbattimento generalizzato e per dieci anni dell’imposta sul reddito d’impresa per chi investe al Sud. Così si creerebbero le condizioni per un forte sviluppo e il Meridione avrebbe un forte incentivo a imparare a spendere bene le proprie risorse.
La “via italiana” al federalismo fiscale
Per dare attuazione all’articolo 119 della Costituzione così come modificato dalla riforma del 2001 – e che sancisce il principio dell’autonomia finanziaria di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni – si è dato al Governo il potere di legiferare in materia di federalismo attraverso la legge delega n.42 del 2009, composta di 29 articoli e dalla quale sono scaturiti otto decreti attuativi che hanno ad oggetto, tra l’altro, il federalismo demaniale, i fabbisogni standard, il federalismo municipale, l’ autonomia tributaria di Regioni e Province, la perequazione e rimozione degli squilibri, l’armonizzazione dei sistemi contabili.
In definitiva, la via italiana al federalismo fiscale si basa sul principio per cui le imposte devono andare a beneficio dell’area nella quale sono riscosse, ciò anche per indurre gli amministratori locali ad essere più responsabili. Tradotto in parole semplici: se pago le tasse a Napoli, Milano, Genova, che almeno una parte di queste tasse vadano a Napoli, Milano, Genova e non tutte al Governo centrale. Fermo restando, come è ovvio, un dovere di solidarietà verso le aree più svantaggiate del Paese.
È da notare che, come solitamente avviene in questi casi, non sono mancate le critiche alla legge delega 42/09. Come ha avuto modo di sottolineare Tommaso Edoardo Frosini in relazione, per fare un esempio, al primo decreto attuativo – il n. 85 del 28 maggio 2010, meglio noto come federalismo demaniale – la stampa, anziché dare rilievo ai contenuti effettivamente problematici del provvedimento, ha martellato con insistenza su inesistenti allarmi circa la vendita di musei, spiagge e beni culturali di vario tipo. Un po’ come è avvenuto con la storia della presunta privatizzazione dell’acqua.
Ma, oltre a questo, il federalismo è attaccato anche su altri fronti: da un lato c’è chi lo contesta in sé, come ad esempio Nino Novacco, presidente dello Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, ndr), sostenendo che non risolverà i problemi del Meridione; dall’altro c’è chi, come il Collettivo Noise from Amerika, sostiene che la legge 42/09 non solo si basi invece su un’impostazione centralista, ma che la spesa pubblica non diminuirà, anzi, potrebbe addirittura aumentare. Sostengono infatti i membri del Collettivo che “anziché richiedere semplicemente agli enti locali il pareggio di bilancio lasciando che decidano autonomamente come raggiungerlo, la legge si richiama al patto di stabilità interno che stabilisce un controllo centrale della pressione fiscale esercitata localmente e cerca di limitare la differenziazione delle politiche di spesa e di quelle di entrata a livello locale”. Insomma, a fronte di un’autonomia proclamata ci sarebbe, secondo loro, una forma di controllo nei fatti che la limiterebbe fortemente con effetti dubbi sulla spesa.
Chi difende a spada tratta la legge 42/09 e i decreti attuativi è, invece, il professor Luca Antonini, presidente della Copaff, la Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale. Secondo Antonini è innanzitutto sbagliato mischiare la manovra finanziaria con il federalismo fiscale, come molti invece stanno facendo in questo momento: il federalismo fiscale una manovra strutturale, la finanziaria congiunturale, il che impedisce di sovrapporre i piani. E si deve già valutare in maniera positiva il fatto che si siano introdotti i costi e i fabbisogni standard, i quali permettono il risultato epocale del superamento della irrazionalità del finanziamento in base alla spesa storica.
Il decreto sui costi standard, infatti, mantiene comunque un alto livello di solidarietà perché a tutte le Regioni è garantito un finanziamento pari almeno a quello con cui una realtà come la Lombardia realizza un servizio di eccellente qualità. Per Antonini, che ha avuto modo di esprimersi in merito nell’ottobre 2010 su Panorama, ”il decreto sulla fiscalità regionale, poi, introduce novità rilevanti, come il principio di territorialità: le compartecipazioni saranno legate a quanto effettivamente riscosso sul territorio e non più, come avviene oggi, a quel meccanismo dei consumi Istat per cui se in una Regione si realizza un’evasione totale comunque questa riceve la sua quota di Iva. Inoltre, l’armonizzazione dei bilanci inciderà, modernizzandoli, sui bilanci di 9 mila 700 enti, portando il nostro sistema ad un livello di trasparenza e di ordine che spesso era gravemente compromesso".
Insomma, fermo restando che ci possono essere criticità che è giusto evidenziare, solo il tempo ci potrà dire se questa riforma darà i risultati sperati. L’importante è che il dibattito, come anche le critiche, non assumano una valenza puramente strumentale e, inevitabilmente, poco costruttiva.