Ferrara preferisce un rischio pubblico a una certezza privata perché fa politica
25 Marzo 2008
Le obiezioni di inopportunità,
persino di condotta autodistruttiva, rivolte al Giuliano Ferrara della lista “Aborto?
No, grazie” sono note. Oscillano dalle valutazioni tecniche a quelle relative al
merito, ideale e politico, della campagna per la moratoria, passando per
l’evocazione del dissenso (o del mancato
consenso) politico di Avvenire, del Giornale, di CL, di Radio Maria, di Famiglia cristiana, per ciò che essi
rappresentano. Nonostante l’opinione di Michele Brambilla (Il Giornale, 15 marzo 2008), solo le valutazioni di opportunità
strettamente tecnico-elettorali alla discesa in campo del direttore del Foglio sembrano avere una plausibilità
inequivoca. Vi è, invece, un corredo di ragioni “più alte” che non riesco ad
approvare e che mi sembrano negare nella sostanza, all’iniziativa di Ferrara
(parlo della moratoria), quel valore che a parole le viene riconosciuto.
Facciamo un passo indietro,
all’intervento di Giorgio Vittadini, sul Giornale
del 29 febbraio u.s. Tanto ambiziosamente titolato, nel riferimento alla libertas ecclesiae et societatisoggi “sostenendo iniziative politico-etiche sacrosante nel
contenuto ma che, nei fatti, provocano solo (!) un radicalizzarsi dialettico
del dibattito e quindi una minor probabilità di poter intervenire in modo
ponderato ed approfondito, oggi o in futuro, su temi non negoziabili in quanto
legati alla concezione stessa della persona”. “Oppure – prosegue, per la verità
– l’errore può esprimersi anche disperdendo voti ecc.”.
Lontano sempre, per formazione
come per meditate ragioni, da tentazioni
utopizzanti mi sento libero di esprimere delle riserve, e non solo a partire dall’evidenza che
l’iniziativa “politico-etica” di Ferrara ha provocato molto di più e di diverso
dalla sola radicalizzazione del
dibattito. Presto attenzione e reagisco
a formule che, nel loro insieme (il “compromesso virtuoso” nel sociale e nel
locale, il “libero operare di famiglie, movimenti ecc.”, opposti alle condotte
affermative), rischiano di sottovalutare l’autonomia e la portata, infine la
necessità, della dimensione politica pubblica, e della azione esplicita nel
quadro della sfera pubblica. La dimensione
politica, il Politico, non è solo, né anzitutto, governance; l’agorà non è
né la piazza dove si conversa in fine giornata, né dove si fa (opportunamente)
mercato, né è disegnata dalle solidarietà organiche.
L’agorà prende forma nelle scelte divergenti di una pluralità di
attori, nella concorrenza di progetti di bene comune, nel conseguente apparire pubblico,
“allo scoperto”, di avversari. Questo è l’essere-insieme della Politica,
diverso da quello della comunità domestica come della
collaborazione-competizione dell’uomo economico. Hannah Arendt associava
genialmente spazio politico e apparire
pubblico: “lo spazio dell’apparire si forma ovunque gli uomini condividano le modalità del discorso e dell’azione”; questo
momento, per se stesso, “anticipa e precede ogni costituzione formale della
sfera pubblica e delle diverse forme di governo”. Aggiungeva: “La sfera
pubblica, lo spazio nel mondo di cui gli uomini hanno bisogno per apparire, è
opera dell’uomo più specificamente di quanto non lo sia l’opera delle sue mani
(…)”. Ma “la convinzione che ciò che di
più grande l’uomo può raggiungere è il proprio apparire e la propria
attualizzazione non è affatto ovvia”. Vi si oppone (in particolare nel periodo
in cui Human Condition, pubblicato
nel 1958, fu scritto) il mito del primato del lavoro e del homo
faber.
La pubblicità della dimensione
politica, in quanto tale, non può essere anonimità e silenzio, né può evitare
la tensione del confronto affermativo, che è la forma propria della condivisione
politica. Vi è in questi anni sete di “cultura politica”. Ma una cultura
politica esiste se è capace di generare progetti determinati (non utopie) e
forze, entro uno spazio, lo spazio politico appunto, in cui di fronte ad una
volontà si delineano anche i suoi avversari. Avversari, non nemici
personali. Un venerato amico, Adriano Prosperi, che attribuisce anche lui, come
un qualsiasi giornalista politico schierato, a Giuliano Ferrara il clima di
Genova (“Donne in ospedale trattate come delinquenti, … un ginecologo suicida in
una città dove l’arcivescovo antiaborista governa ospedali, ecc.”, Repubblica, 14 marzo 2008), oltre a
scrivere sulla disciplina e dottrina cattolica moderna dell’aborto cose troppo
polemiche, troppo poco misurate per uno storico, è oggi un avversario. Come hostis viene schierato da Repubblica, col pretesto del recente
libro di Adriano Sofri, contro Ferrara come contro Roma e la chiesa italiana. Non
me ne faccio motivo d’ansia; perderemo tutti, forse (o forse no), un po’ del
nostro à plomb ma ciò che conta è che
è in corso una partita pubblica con dei contendenti, che Repubblica vi gioca di rimessa, che comunque non si tratta più di
un a solo in cui quel fronte parli incontrastato, com’è
avvenuto per troppo tempo.
Se gli attori della sfera
politica sono (politicamente) veri, se l’agorà
si palesa nel venire alla luce di volontà diversamente ordinate al bonum comune, non potremo (né dovremo)
evitare il conflitto. Perché mai, chiedo
a Vittadini, il contrasto affermativo di oggi impedirebbe domani di “intervenire
in modo ponderato e approfondito” ? E su
cosa poi si negozierebbe, domani, se non fossero formulati oggi e proposti alla sfera pubblica degli obiettivi contrapposti?
So che la mission, come si
dice, del presidente di una Fondazione per la Sussidiarietà non è la
elaborazione della linea culturale e politica di CL. Ma da persona che di CL non è mai stata, riuscendo
egualmente ad apprezzarne (e molto) persone e ragioni, ho qualche rimpianto per la presenza
affermativa di altri anni. Anche CL mi appare sotto la tentazione dell’ideologia
invisibilista ricavata dalla Lettera a
Diogneto (cavallo di battaglia delle culture cattoliche che CL ha
avversato!).
Eppure la cultura politica cattolica
maggioritaria ha perso il suo peso nella storia italiana (e più generalmente
europea) proprio alimentando in sé teorie e pratiche di una politica della
latenza, più tardi, nella débacle, definita
come crescita cattolica alla “laicità”! Prediligendo la negoziazione riservata
tra i soggetti politici, ha sottovalutato la necessità di esistere seriamente
come parte del dibattito pubblico e della lotta politica. Gli ultimi lustri di storia democristiana hanno mostrato, ma troppo
tardi, riguardo a valori e istituti fondamentali, come quel tanto che di volta
in volta la DC
tutelava non fosse saldamente posto. E non a causa della “secolarizzazione”, insopportabile
escamotage, ma perché non si volle più motivare istituti e valori, ragionarli di
fronte all’opinione pubblica, incarnarli in culture e forze intellettuali e
morali pubblicamente consistenti. Le sconfitte, anzitutto legislative, su divorzio
e aborto furono solo sintomi vistosi quanto mal interpretati (incidenti di
percorso!) di un fenomeno esteso: su tutto, progressivamente, l’azione politica
cattolica subiva l’iniziativa di chi, invece, ragionava in forma persuasiva e
ad alta voce. Quando la DC scomparve, essa era (politicamente)
solo un nome senza arendtiana forma pubblica.
La pertinenza di queste
considerazioni alla questione Ferrara è evidente. Non è bastato e non basta davvero “il libero operare di
famiglie, movimenti, istituzioni ecc.” a frenare la “deriva edonistica”, la
“cultura della morte”, nelle nostre società. Alla riflessione alta non meno che
al common people bisogna dare
ragioni, non solo esempi: gli esempi restano i tuoi, influenzano circoscritti
mondi relazionali; solo le ragioni possono diventare di tutti. Il Politico è
altro dal domestico e dal sociale. Solo
se l’altro è raggiunto da “ragioni” (che diano, tra l’altro, significato
universale agli “esempi”) egli può condividere con te una azione pubblica conforme,
ad esempio rivolta ad affermare (e tutelare) la santità della vita “dal
concepimento alla morte naturale”. Questo
è Politica. Carlo Galli ha sottolineato una profonda formula di Carl Schmitt:
“il ‘politico’ può trarre la propria forza dai più diversi settori della vita
umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso
infatti non indica un particolare settore
concreto ma solo il grado d’intensità
di un associazione o di una dissociazione di uomini”.
Ma le idee dividono. Come
dialogheremo poi? Obietto: chi ha ridotto
la teologia politica cattolica (non penso ora al collega Vittadini) a trepido
emozionalismo, fosse pure solo di facciata, a comunitarismo tutto slogan, a
convinzioni (quando vi sono) senza progetto e senza ragioni, se non quelli
degli altri, delle altre culture politiche?
Giuliano Ferrara proponendo nello spazio pubblico grandi tesi, razionali
e cattoliche, teoriche e pratico-politiche, non ha solo aperto una querelle; ha fatto e fa politica nella
sua forma fontale, quella che mette in gioco idee e idealità con l’effetto di
disegnare spazi di azione. Nell’agorà qualcuno ha posto in agenda,
quindi ci ha obbligato a ponderare, quanto conformi al bonum comune siano le leggi e l’ethos (nulla è privato sui terreni
antropologici) su vita e morte del nascituro; e a decidere di conseguenza. Antropologia, dunque, ed etica pubblica e istituti:
niente che non sia al cuore della polis.
Se questo qualcuno non è chi
avrebbe dovuto essere, se cioè la cultura politica cattolica è stata e resta assente
(assente la cultura politica, non la passione e l’intelligenza dei movimenti
per la vita), questo è responsabilità cattolica. Che abbiamo fatto noi dell’immenso “patrimonio di saggezza
della Chiesa” (per usare una espressione di Brambilla)? Se in
noi era rimasto (politicamente) inerte non dovrà essere Giuliano Ferrara a
scontarlo.
Ma, si osserva%2C Ferrara è
andato troppo oltre. Chi decide dell’oltre,
ossia dei limiti della spinta e della profondità di penetrazione di una
campagna (che è più che tale)? Non ci
lasceremo confondere dall’abile messa in scena, da parte degli avversari, di un
loro naturale ripudio dell’aborto, di un loro virtuoso consenso
sull’essenziale, ferito dall’intransigenza di Ferrara. Chi eleva geremiadi sullo scontro di idee
difende l’egemonia che vede messa in discussione. Che poi qualcuno difenda
persino, ciecamente, l’egemonia altrui su di sé è solo la riprova che
quell’egemonia funziona.
Brambilla tende a dare dei
criteri più interni e sottili. Ferrara
non dovrebbe (non avrebbe dovuto) compiere scelte che sono di danno al suo
stesso obiettivo. Su due fronti. Il primo: la metamorfosi politico-elettorale
di una battaglia etica dispiace all’opinione pubblica italiana (così “la
presentazione di un partito … ha fatto calare la simpatia e il consenso verso
la moratoria per l’aborto”), e il suo fallimento elettorale peserà sulla
battaglia stessa, denunciandone l’irrilevanza per la maggior parte dei
cittadini. Il secondo: il linguaggio si radicalizza nel confronto politico immediatamente
ordinato al voto; ma un clima da “rissa verbale” non aiuta la causa di Ferrara
e degli altri oppositori della cultura dell’aborto. Convincere a non abortire
vuole azione culturale e “(soprattutto) una realtà di accoglienza”.
Suppongo che Brambilla abbia
qualche ragione sul primo punto. Portare una già difficile battaglia sui
principi nelle strettoie di una competizione elettorale ove, nella decisione di
voto, giocano molte variabili, è un rischio certo. Ma non credo si debba
insegnarlo al direttore del Foglio. Il
secondo punto, però, echeggia la nostra difficoltà cattolica a pensare il
Politico, che non è ciò che intendiamo col pensare politicamente, per rapporti
di forza ed effetti a breve (momento necessario ma secondo). La questione e
l’enjeu dell’interruzione volontaria di gravidanza è più che l’opera amorevole
e quotidiana di convincere delle donne a non abortire. È ad esempio sanzione
della santità della vita umana nei princìpi e negli ordinamenti delle società
avanzate; è protezione dello spirito delle costituzioni democratiche dalla
tentante semplificazione delle bioetiche materialistiche; è conflitto di
interpretazioni su logica ed estensione dei diritti umani.
Associarsi e dissociarsi nella
sfera pubblica per questo più è apparizione
del Politico. Potrebbe calamitare il voto di molti che il “disgusto per la
politica” induce oggi a non votare.