Ferrin, Zapatero e il falso pluralismo

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Ferrin, Zapatero e il falso pluralismo

27 Dicembre 2008

Negli articoli precedenti ho sostenuto la tesi che il ‘pluralismo’, divenuto ormai il primo articolo di fede della political culture non solo italiana ma (purtroppo) occidentale, è assai spesso un pluralismo ‘taroccato’, strumentale. Si è pluralisti non ‘a favore di’ qualcuno ma ‘contro’ qualcuno: la diversità che chiede riconoscimento non arricchisce il mondo, come pretende, ma lo impoverisce, lo priva del suo passato e delle sue radici. Se rinunciamo a fare del Natale una festa collettiva per non urtare la sensibilità dei non cristiani non rendiamo la società più ‘variopinta’ ma la priviamo di alcuni colori, i nostri. Non si tratta tanto di credere o di non credere ma di preservare riti comunitari che da tempo immemorabile sono parte dell’identità di un popolo: le genti scandinave, per fare un esempio significativo, tengono in vita cerimonie e raduni che risalgono a epoche remote in cui si veneravano Odino e gli Asi. Nessuno, ovviamente, crede più nelle divinità pagane ma ripetere i gesti e le liturgie degli antenati significa riaffermare valori etno-culturali imprescindibili per ogni regime politico. A cominciare dalla democrazia liberale che non è un insieme di fredde regole e di istituzioni astratte volte a regolare il traffico sociale di individui incolori, inodori, insapori ma la forma impressa a una comunità vivente, che ritiene i suoi diritti e i suoi ‘stili di vita’ meglio protetti dal garantismo e dal costituzionalismo che da altre forme di governo. Il vero pluralismo dovrebbe consistere nell’invito (non obbligo, per carità) rivolto a tutti i credenti a partecipare alle celebrazioni religiose dei loro concittadini di altre fedi: nel vedere gli islamici nelle chiese davanti al presepe e i cristiani nella moschea o nella sinagoga per condividere la gioia e la serenità della Pasqua ebraica o della fine del Ramadam.

La via scelta dai governi, invece, sembra essere quella della rimozione della ‘diversità’ ma solo di quella che offende in quanto legata al passato e alla tradizione. Se diventa la testa d’ariete per far crollare abiti e costumi ereditati, la diversità è benvenuta, in caso contrario diventa pregiudizio eurocentrico. Il progressismo illuminista, non credendo più nel suo messaggio cristiano-universalistico, per demolire l’ancien régime conta ormai sulle ‘tribù’, sulle appartenenze separate, sui ‘diversi’ di ogni specie: si fa saltare la fortezza della ‘particolarità’ che non piace con i <cento, mille Vietnam> della particolarità aggressiva, non disposta all’integrazione e alla convivenza civile col <mondo di ieri>.

La Spagna di Zapatero è da qualche tempo il capofila di questo processo di secolarizzazione unidirezionale, che, in nome del rispetto di una ‘differenza’ che i nostri antenati non erano disposti a giuridicizzare, impone a tutti una sola legge–e, in definitiva, una sola morale–facendo sventolare la bandiera del pluralismo nel campo devastato degli avversari ideologici. Particolarmente emblematico è, a tal riguardo, il caso di Fernando Ferrin Calamita, il magistrato della Murcia, finito sotto processo <per aver negato e rallentato in ogni modo la richiesta di adozione ricevuta da una coppia di lesbiche>. La Procura del Tribunale supremo di giustizia della Murcia ha chiesto per lui una punizione esemplare: nove mesi di carcere, 18 mesi di sospensione dall’incarico più un risarcimento di 18mila euro da versare alle vittime delle sue inadempienze, Vanessa e Susana. Non volendo rubare il mestiere ai teocon, chiarisco che il caso in esame mi sembra molto complesso: la bimba di cui la coppia gay ha chiesto l’adozione è figlia di Vanessa (che l’ha avuta con l’inseminazione artificiale) e, pertanto, sarebbe stato impensabile o difficile sottrarla alla madre naturale. Ciò che si chiedeva al Tribunale era che a Susana fosse consentito di diventare il  secondo genitore adottivo della piccola. Da rilevare, altresì, che la richiesta, in base al nuovo diritto di famiglia–fatto approvare, a colpi di maggioranza parlamentare, da Zapatero—rendeva più che accoglibile tale richiesta e che è un antico principio della civiltà del diritto—almeno da Socrate in poi—che alle leggi si deve obbedienza, anche se ci sembrano ingiuste, purché siano state emanate da autorità legittime e competenti (tali autorità, in democrazia, sono quelle elette da un popolo libero convocato in regolari comizi, com’è il caso, appunto, del governo Zapatero). Non si può trascurare, infine, la pretestuosità di un ritardo giustificato dal fatto che Ferrin aveva interpellato la Direzione per la Famiglia del Governo di Murcia, per avere un (improbabile) parere sul <diritto del minore di essere inserito in una famiglia normale, formata da persone di diverso sesso>.<Nessuno, ha dichiarato il magistrato, ha diritto di adottare, quale che sia il suo sesso: è l’adottato che ha il diritto di esserlo>. A motivare il continuo rinvio della sentenza, com’è facile intuire, era la preoccupazione che anche la bimba diventasse gay <imitando il modello vissuto in casa negli anni fondamentali della formazione della sua personalità>.

La vicenda merita qualche riflessione. Il comportamento di Ferrin è stato indubbiamente discutibile sul piano formale (ma in diritto le forme sono ‘sostanza’) ma, al di là del diritto e delle sue disposizioni–da rispettare sempre–vi sono altre considerazioni, che coinvolgono direttamente la vexata quaestio del pluralismo. La prima domanda da porsi è: se il giudice, invece delle dilazioni e dei rimandi, avesse fatto ricorso all’<obiezione di coscienza>,  la sua posizione sarebbe stata rispettata e la ‘pratica’ dell’adozione assegnata a un suo collega, a differenza di lui non cattolico e tanto meno <vicino all’Opus Dei>? Dietro il ‘diritto di famiglia’ di Zapatero, ci sono un’etica sociale e una concezione del mondo: la ‘normalità’ (e naturalità) del terzo sesso, l’irrilevanza del genere ai fini della genitorialità, la separazione dell’amore dalla procreazione. Si tratta di una filosofia che tutti sono tenuti a condividere? E vale ancora il discorso della separazione della morale dal diritto, per cui non è reato ritenere immorale una norma alla quale—si ribadisce ancora una volta– si è tenuti comunque a obbedire (finché resta in vigore)?

L’autentico pluralismo liberale, com’è noto, riconosce l’obiezione di coscienza in importanti ambiti della vita nazionale: ad esempio, i non violenti, di obbedienza gandhiana o tolstojana, possono venire esonerati dal servizio militare e optare per il cosiddetto ‘servizio civile’; i medici cattolici o d’altra religione hanno la libertà di non praticare l’aborto; gli esperti delle ‘scienze della vita’possono astenersi dalla pratica della vivisezione. Non sempre quanti approvano tali esenzioni sono animati da convincimenti liberali. Il favore con cui si è guardato, da parte della cultura politica egemone, all’opzione del servizio civile era alquanto sospetto: poiché la guerra è il ‘male assoluto’ (e l’art. 11 della Costituzione, malamente interpretato, sembra suffragare tale idea), non potendosi realisticamente abolire gli eserciti, sia almeno consentito, ai portatori di pace non avere nulla a che fare con le armi. Dietro tale lettura non c’è la tolleranza verso chi la pensa diversamente ma il dogmatismo intellettuale di chi sa cosa sia bene e  cosa sia male e non è affatto disposto a prendere in considerazione, nella fattispecie, altre visioni della guerra e della pace—a cominciare da quella contenuta nell’antica massima <si vis pacem para bellum>.

Diversi sono i casi delle altre due obiezioni di coscienza previste dalle leggi vigenti. Qui vengono riconosciuti valori diversi: nella prima, il diritto a preservare la vita, dono di Dio, viene posto sullo stesso piano del diritto a non compromettere irreparabilmente il proprio equilibrio fisico e psichico con una nascita non desiderata; nella seconda, l’esigenza di far progredire la scienza farmacologica (indipendentemente dal problema, non solo tecnico, dell’esistenza e della praticabilità di metodi alternativi) viene bilanciata dall’indisponibilità a provocare sofferenze, fortemente radicata in un’etica allargata a tutto il vivente. A ben riflettere,  l ‘obiezione di coscienza’ è sempre la cartina di tornasole del ‘liberalismo reale’ giacché, a prenderla sul serio, comporta la presa d’atto che, per una parte del ‘popolo sovrano’, certe leggi sono ‘immorali’ e che quanti ad esse oppongono la <disobbedienza civile> possono far valere  le loro ‘buone ragioni’ o comunque ‘ragioni che si possono capire’—anche se non sono cogenti e decisive per gli altri. 

Tornando alla Spagna, è riconosciuto o no il diritto di dissenso al giudice Ferrin e alle migliaia di funzionari spagnoli, che debbono fare applicare le norme del codice civile zapateriano? Possono rifiutarsi di celebrare un matrimonio gay, non firmare un atto di adozione ripugnante alla loro morale alla stessa maniera con cui un avvocato civilista cattolico si rifiuta di curare una causa di divorzio? Per un liberale <that is the question>! C’è una teoria della normalità sulla quale la scienza e l’etica congiuntamente hanno inciso il sigillo della Verità—in quanto tale, indiscutibile– o è lecito, in tematiche tanto delicate come quelle che riguardano la sfera sessuale, la generazione della vita, l’allevamento dei figli, i modelli familiari, essere di <diverso parere>? Si può capire che tra due diverse concezioni della normalità prevalga quella della maggioranza (ma il popolo andrebbe consultato attraverso un referendum, ricorso in Spagna debitamente evitato, forse per paura di una sconfitta…), si capisce meno, sempre in un’ottica liberale,  l’imposizione a tutti i servitori dello Stato di applicare leggi in contrasto con i propri convincimenti morali.

Di questo passo, si potrebbe obiettare, non si consentirebbe a qualsiasi funzionario di venir meno ai suoi doveri d’ufficio, qualora non fosse d’accordo con lo <spirito delle leggi>, di determinate leggi? Se un impiegato della motorizzazione dovesse ritenere immorale la possibilità concessa dal legislatore di prendere la patente a 18 anni, ritenendo troppo basso tale livello di età, non potrebbe rifiutarsi di inoltrare la pratica relativa ? L’obiezione, però, sembra ignorare l’enorme, incomparabile, rilevanza dell’etica sessuale nella vita individuale e collettiva e le disposizioni mentali e morali che ne derivano. Se per alcuni essere gay, bisessuali o eterosessuali ha la stessa importanza che l’essere mancino o destro, per altri, sotto il profilo esistenziale, può essere decisivo per la formazione della personalità. Si tratta di due diverse Weltanschaungen sulle quali dovrà pronunciarsi unicamente lo Stato richiamandosi al vecchio principio <stat pro ratione voluntas> ma fingendo poi che la <voluntas> sia stata determinata dalla <ratio>?