Finalmente l’Europa prova a darsi una politica estera comune

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Finalmente l’Europa prova a darsi una politica estera comune

15 Dicembre 2008

Ma veramente al recente Consiglio europeo dell’11 e 12 dicembre i capi di Stato e di governo hanno discusso soltanto di crisi finanziaria, trattato di Lisbona e clima? Assolutamente no: checché ne dicano (anzi: non ne dicano) i mass media, i leader europei hanno parlato anche di altro. Ad esempio è stato affrontato diffusamente un argomento a cui l’Italia è allergica: la sicurezza e la difesa. In una dichiarazione allegata al comunicato finale si esprime la volontà di imprimere un nuovo slancio alla politica europea di sicurezza e difesa, che si dovrà sviluppare in piena complementarità con la NATO, migliorando le capacità europee civili e militari sia di pianificazione che di intervento comune.

In quanto alle operazioni, facilitate dall’acquisizione di capacità solide, flessibili e interoperabili, la PESD dovrà essere in grado di condurre contemporaneamente fino a una ventina (e non sono poche) di operazioni di varia portata: stabilizzazione e ricostruzione, reazione rapida, evacuazione di emergenza di cittadini europei da aree di crisi, sorveglianza aeronavale, assistenza umanitaria, polizia, protezione civile, stato di diritto e amministrazione civile. Solo dieci anni fa, tutto questo era semplicemente impensabile.

Circa la politica estera dell’Unione è stata data enfasi all’iniziativa verso i sei partners orientali della politica europea di vicinato: tre Paesi dell’Europa dell’Est (Bielorussia, Moldova e Ucraina) e tre Paesi caucasici (Georgia, Armenia e Azerbaigian). Questi Paesi verranno aiutati “a progredire nel processo di riforma contribuendo così alla loro stabilità e all’avvicinamento all’Unione Europea”. Con questa frase la UE, pur non dicendolo esplicitamente, definisce i propri confini orientali.

Aspettiamoci ora il varo ufficiale del partenariato orientale che avverrà nel corso di un apposito vertice da tenere nel corso della prossima presidenza di turno della Repubblica Ceca nel primo semestre del 2009. Nell’ambito della politica estera, la UE ha anche ribadito con forza il proprio impegno a perseguire la pace in Medio Oriente e la soluzione del contenzioso israeliano-palestinese sulla base dei due Stati che vivano in pace e sicurezza. L’Unione si adopererà anche per addivenire a fruttuosi colloqui di pace fra Israele, Siria e Libano.

In quanto alle misure contro la crisi finanziaria (fra di esse, curiosamente, non è previsto lo sciopero generale), ogni Paese si è presentato con i compito a casa già fatti: c’è chi ha adottato misure per i più bisognosi come ha fatto l’Italia, chi ha stanziato fondi per il proprio comparto auto come la Svezia, chi ha destinato miliardi di euro per le grandi opere e altrettanti per il salvataggio delle banche come la Germania, chi progetta di tagliare le tasse ma non subito (è meglio farlo nell’anno delle elezioni politiche, come accadrà in Germania nel 2009).

I Paesi membri che si sono presentati a Bruxelles sembrano anche disponibili ad adottare misure comuni. Infatti è stato approvato un piano di rilancio dell’economia pari a 1,5% del PIL europeo (circa 200 miliardi di euro) che prevede interventi immediati, concentrati e temporanei in settori particolarmente delicati come quelli dell’industria automobilistica e delle costruzioni.

La roadmap per l’approvazione del Trattato di Lisbona ha impegnato sensibilmente i capi di stato e di governo. Tutto ha girato attorno all’Irlanda, che si è detta disponibile a organizzare un ulteriore referendum popolare per approvare il trattato consentendogli di entrare in vigore quanto prima. In cambio, Dublino chiedeva che l’Europa non si intromettesse nelle questioni irlandesi relative a neutralità militare, diritto di famiglia, diritto alla vita, istruzione e tasse. Ma soprattutto l’Irlanda chiedeva che il numero dei componenti della Commissione Europea non scendesse da 27 a 18, altrimenti Dublino avrebbe perso il proprio commissario.

Sì, perché in Europa il numero dei “ministeri” non viene stabilito in base alle necessità, ma in base al numero dei Paesi membri: uno a testa, per non scontentare nessuno, a costo di inventarne le competenze. Come in Italia nei tempi più bui della Prima Repubblica, quando il numero e la provenienza dei ministri e dei sottosegretari veniva stabilito in base al partito, alla corrente di partito e alla provenienza geografica. Con buona pace della funzionalità del sistema Italia. Alla fine l’Irlanda è stata accontentata in tutto e terrà un nuovo referendum entro l’ottobre del 2009.

Il riscaldamento globale e il clima atmosferico, alla vigilia del vertice, hanno surriscaldato il clima politico. Il pacchetto preparato dalla Commissione era giudicato da vari Paesi troppo oneroso in tempi di crisi. Italia e Polonia si sono presentate al vertice agguerrite e decise a far valere le proprie ragioni a costo di porre il veto: “E’ assurdo discutere di clima in tempi di crisi finanziaria”. Angela Merkel ha fatto notare che con quel pacchetto “il futuro stesso della Germania come potenza industriale era a rischio”. Sarkozy, presidente di turno, ha insistito sul fatto che “l’Europa non può dare spettacolo di divisione: va raggiunto un accordo”.

E alla fine l’accordo è arrivato: entro il 2020 le emissioni di gas serra verranno ridotte del 20%, con un aumento del 20% della capacità energetica e con un ricorso del 20% in più alle fonti alternative. Soddisfatti, almeno in parte, gli ambientalisti grazie a un fondo di 6 miliardi di euro per lo sviluppo della tecnologia del carbone pulito; soddisfatte le aziende cartarie e siderurgiche che fino al 2020 potranno inquinare senza pagare penali e soddisfatto più di tutti Sarkozy, che ha dichiarato che questo vertice passerà alla storia.

A questo punto, però, a forza di sentir parlare del 2020, i cittadini europei si chiedono: chi verifica che gli impegni vengano effettivamente assunti entro il 2020? E chi ci garantisce che tali impegni poi non vengano posticipati al 2030 o al 2040? Ed è proprio qui che casca l’asino, nel vero senso della parola.

Questa vicenda, infatti, fa venire alla mente la storia dell’emiro di Bukhara, che voleva a tutti i costi insegnare a leggere e scrivere al suo asino, ma non trovava precettori disposti ad impegnarsi in quel cimento. Un bel giorno si raggiunse un compromesso, proprio come ai vertici europei. Un maestro si dichiarò disposto ad imbarcarsi nell’immane impresa ma con un caveat: “Mi impegno a insegnare a leggere e scrivere all’asino, ma ho bisogno di vent’anni di tempo”.

Agli amici increduli, che lo prendevano per pazzo facendogli osservare che l’emiro gli avrebbe tagliato la testa una volta resosi conto che l’asino non avrebbe mai letto o scritto, nemmeno dopo vent’anni, l’insegnante rispose: “Tranquilli, non c’è problema: fra vent’anni o sarà morto l’emiro, o sarò morto io, o sarà morto l’asino. Quindi il caso si risolverà da solo!”. La similitudine fra Bukhara e Bruxelles è tanto evidente quanto inquietante.