
Finanza senza regole

12 Agosto 2011
Milano ha perso il 6,6%, ma sia Francoforte che Parigi e Madrid hanno perso ben oltre il 5%. Da inizio settimana sui mercati finanziari europei si è spezzato l’incantesimo che vedeva i cali concentrati soprattutto sulle piazze eurodeboli. Da inizio anno alla chiusura di venerdì scorso l’indice italiano Ftse Mib perdeva il 20%, ma il Dax 30 di Francoforte solo il 9%, e il Cac40 di Parigi il 14%.
Dopo l’abbassamento del rating al debito pubblico americano, lo scorso fine settimana, i mercati europei hanno solo tirato un momentaneo sospiro di sollievo alla notizia che le banche centrali, Fed e Bce d’accordo, avrebbero preso a comprare i titoli del proprio debito pubblico per sostenerne i corsi. Ma subito dopo, come puntualmente avevamo avvisato i lettori del Messaggero lunedì, ecco che i mercati hanno ripreso a picchiare. E questa volta la novità è che non fanno sconti a nessuno, tedeschi e francesi in testa, oltre naturalmente a Wall Street, che inanella ribassi simili solo a quelli del 2008 immediatamente successivi al crac di Lehman Brothers.
Purtroppo era una facile profezia. Perché a spingere con questa forza al ribasso i mercati – spesso verso quotazioni che da tempo non hanno alcun riscontro nei fondamentali di banche e società quotate, che vedono la propria capitalizzazione scendere verso abissi del tutto ingiustificati – è la forza congiunta di tre fenomeni oggettivi, la cui importanza è tale da sopravanzare le legittime proteste di chi vede il proprio valore depresso a frazioni dei mezzi propri scritti nei libri patrimoniali.
Il primo di questi fenomeni è la radice stessa della crisi nata nell’estate del 2007 ed esplosa nell’autunno 2008, e ha a che vedere con il modello di intermedia-zione finanziaria praticato globalmente. La crisi è nata perché per una ventina d’anni tecniche e prodotti finanziari sempre più raffinati hanno sostenuto l’eccesso di debiti privati del mondo anglosassone abbattendo il rischio di solvibilità dell’emittente indebitato e quello patrimoniale del prenditore-creditore, sostituendolo con rating finanziari elevati dell’intermediario che rivendeva tranche di debiti rendendo impossibile capire che che cosa davvero si trattasse. E riassicurandosi a propria volta attraverso prodotti finanziari derivati trattati fuori dai mercati regolamentati.
Esplosa la crisi, si è detto per un bel po’ che occorreva rivedere dalle fondamenta quel modello, e scrivere regole comuni tra America, Europa e Asia, volte a impedire che il sistema bancario si paralizzasse, nell’incertezza ciascuno di che cosa avesse in pancia l’altro. Quella riscrittura di regole non è in realtà mai avvenuta.
Non è un caso che misuriamo la rischiosità del debito pubblico dei diversi Paesi europei non pesando gli attivi patrimoniali che garantiscono il pagamento dei debiti -nel caso dell’Italia l’attivo pubblico supera larghissimamente la consistenza pur ingentissima del debito – bensì attraverso l’andamento di un contratto derivato di riassicurazione, il Sovereign Credit Default Swap. E la finanza continua allegramente a realizzare i più dei propri proventi con tecniche del tutto analoghe a quelle che ci hanno regalato la crisi. I prodotti derivati valgono da soli almeno sette o otto volte il Pil mondiale, si calcola. E l’idea che comunque le banche vengono salvate dagli Stati, la via che è stata seguita per quelle "troppo grandi per fallire", ha finito per incoraggiare l’azzardo morale invece di sradicarlo.
L’Europa ha una responsabilità pesante: occorreva incalzare molto di più l’America, che è all’origine del problema, sfidando l’Amministrazione Obama a essere molto meno "catturata" dai grandi istituti finanziari americani, che restano leader mondiali.
Il secondo enorme problema è invece l’esplosione del debito pubblico. Un’esplosione che è avvenuta tanto sulla riva europea dell’Atlantico, quanto su quella americana. La politica ha risposto a una crisi assai diversa da quella del 1929 quella una crisi di liquidità monetaria , questa una crisi di solvibilità fiduciaria – con le armi apprese negli anni Trenta, cioè facendo vertiginosamente salire spese e debiti pubblici. Obama ha portato la finanza pubblica statunitense su tracciati che sono nel prossimo quindicennio incompatibili con la pressione fiscale a cui l’America è abituata.
In Europa, i deficit sono esplosi quasi dovunque. Noi e i tedeschi abbiamo fatto eccezione, ma il guaio italiano era preesistente, il debito pubblico era già altissimo, e in queste condizioni di pressione fiscale già elevatissima non riusciamo a crescere più. La frustata all’America con la perdita della sua tripla A a garanzia del debito ha svelato che il re è nudo. E il problema non è solo di medio periodo, perché automaticamente i mercati mandano al ribasso tutte le banche che sono piene di titoli pubblici europei e americani.
Se l’America perde la tripla A è ragionevole che lo stesso debba presto avvenire alla Francia, ed ecco perché ieri Societé Generale ha perso a Parigi fino al 20% e Sarkozy ha dovuto precipitosamente interrompere le proprie vacanze.
Il terzo problema, infine, è il rallentamento della ripresa mondiale, in corso dall’inizio dell’anno e in via purtroppo di rafforzamento. L’America stenta e torna a riaffacciarsi l’incubo recessione perché bisognerà incidere il coltello in migliaia di miliardi di dollari di trasferimenti pubblici. La Cina deve ricalibrare la sua crescita al 10% annuo per evitare surriscaldamenti del suo credito interno e del sistema bancario. L’Europa da 20 mesi non decidendo un meccanismo comune di sicurezza ha approfondito il divario tra chi cresce di più echi quasi zero, col risultato che oggi anche il campione tedesco vede diminuire il tasso di crescita del suo export.
Certo, non siamo morti dal 2008 a oggi, e anche oggi non siamo a rischio di sopravvivenza. Ma questi tre grossi problemi sono uno spietato atto d’accusa che i mercati muovono alla grande politica mondiale. Per questo, ai lettori bisogna dire la verità. La tempesta non è finita. E ai politici bisogna chiedere regole nuove per i mercati finanziari, molto meno debito pubblico, e capacità di saper incidere nei troppi milìardi di spesa pubblica che con la crescita non c’entrano niente, invece di pensare a nuove tasse correnti o patrimoniali.
(Tratto da Il Messaggero)