Fini a Mirabello fa la vittima ma ancora non sa cosa vuole

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Fini a Mirabello fa la vittima ma ancora non sa cosa vuole

05 Settembre 2010

Gianfranco Fini è un vero maestro nel creare aspettative ma è almeno altrettanto bravo nel deluderle. Il presidente della Camera ha fatto di Mirabello – a suo stesso dire – l’epicentro della politica italiana, ma alla fine dell’ora e mezza di discorso, spenti i riflettori e chiuse le dirette, Mirabello è ancora e soltanto un comune della provincia di Ferrara tra Vigarano Mainarda e Sant’Agostino.

Anche Fini è salito e sceso dal palco della Festa tricolore senza subire mutazioni. Ha preso il microfono con il piglio del presidente della Camera, preceduto da tre “men in black” con tanto di occhiali scuri e misteriose valigette, e quando ha lasciato la ribalta era ancora e soltanto il presidente della Camera.

Fini – dopo Mirabello – non è il capo di un nuovo partito, non è il co-fondatore del Pdl che “non esiste più”, non è l’animatore di un’alternativa al governo “che deve finire la legislatura”, non è il leader di una rinata Alleanza Nazionale (“chi lo pensasse non avrebbe capito nulla”), non è neppure il possibile punto di riferimento per nuove aggregazioni politiche, “siamo nel centro destra e ci restiamo”. Fini oggi è un presidente della Camera senza partito di riferimento, con un pezzetto di governo e due gruppi parlamentari che rispondono solo a lui.

Se Mirabello, come era stato lungamente annunciato, doveva essere un’occasione di verità e di chiarezza non sembra essere servito a molto. E’ servito invece, e molto, all’unico disegno che Fini aveva in animo in questa fase: passare per la vittima.

Quello che si è visto alla Festa Tricolore è il Fini epurato, maltrattato, messo a tacere dal “partito senza libertà”, trattato come neppure nel “libro nero del comunismo”, bersaglio di una “lapidazione di tipo islamico”, impedito e concusso nella possibilità di spiegare e far valere le sue buone idee, la sua buona politica, i suoi umili suggerimenti al governo. Un Fini che avrebbe voluto un Pdl grande, libero, nazionale, riformatore, solidale, moderno, onesto e inclusivo, e che per questo è stato ignominiosamente cacciato.

Nella narrazione del Presidente della Camera “tutto comincia il 29 luglio”, con il documento dell’Ufficio di presidenza che sancisce la sua estromissione. Un fulmine a ciel sereno, scagliato da un padrone capriccioso e irritabile che mal tollerava il suo spirito libero e irredento.

In realtà tutto comincia da molto prima. Comincia dalle “comiche finali”, dall’adesione ob torto collo al Pdl, dalla frustrazione del non avere altra scelta, dall’insofferenza per un Berlusconi che continua a vincere le elezioni anche senza il suo aiuto, dalla paura della Lega che avanza verso il centro e il sud, dalle lusinghe e dagli applausi del bel mondo politico giornalistico anti-berlusconiano che ne ha fatto il suo eroe, dai cattivi consiglieri che giorno dopo giorno lo spingevano un passo avanti verso la rottura tagliando i ponti per tornare in dietro.

La “bella politica” non è mai stata il motivo: non c’entrava la cittadinanza per gli immigrati, il federalismo solidale, la bioetica liberale, le coppie di fatto, la buona educazione istituzionale e neppure la questione morale. Di tutto questo si è discusso all’infinto e su molti temi Fini ha anche avuto la meglio.

La rottura è stata insieme più profonda e più banale. Come sempre in politica, mette insieme questioni personali e di potere. Berlusconi ha vinto e governato troppo a lungo per non trasformarsi da “sdoganatore” e alleato in ostacolo e infine in avversario. Le cose che i finiani sono stati capaci di dire di Berlusconi in questi ultimi mesi, i sospetti che hanno alimentato sul suo conto, non hanno riscontro neppure tra i suoi peggiori nemici di sinistra.

Il Pdl è stato dato per morto e l’alleanza tra i due è stata sepolta ben prima del 29 luglio. Cito, tra i tanti, un editoriale di FareFuturo dello scorso aprile (aprile, non luglio): “Non sappiamo come andrà a finire lo scontro politico tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. E sinceramente poco ce ne importa”. E poco gliene importava perché il problema già allora era mettere tra Fini e Berlusconi il massimo della distanza, erigere un cordone sanitario. Cos’altro fare infatti con qualcuno che “considera il potere una cosa privata, fine a se stessa, senza ideali, senza contenuti, senza obiettivi”. Mentre Fini, sempre secondo FareFuturo rappresenta “l’alterità” intesa come “decoro, stile, moderazione, sobrietà, dialogo, pacatezza…” e via di questo passo.

Il 29 luglio non c’entra nulla. Anzi l’impressione è che l’esito di quell’ufficio di presidenza sia stato cercato, voluto, costruito fin nei dettagli da molto tempo prima. Per arrivare a Mirabello e alle sue ovazioni e poi chissadove.

Resta da chiedersi perché anche questa volta Fini non sia andato fino fondo, perché non si sia deciso a riversare la sua “alterità” in un altro partito. Temeva di mettere a rischio lo scranno da presidente della Camera? Non era certo di mantenere intatto il suo seguito? Ha avuto paura di conseguenze irreparabili mentre soffia il vento elettorale? Ha il terrore di misurarsi con qualcosa di interamente suo, di dar prova di ciò che sa fare oltre che dire? Sarebbero tutti ottimi motivi per un politico di cui fosse chiara la destinazione finale. Forse Fini vuole solo tenere tutti sulla corda ancora per un po’, compresi i finiani. Sempre che la corda non si spezzi prima del previsto.