Fini è il leader perfetto di un mondo perfetto (e silenzioso)
10 Febbraio 2010
Venuto a sapere della lettera inviata da Silvio Berlusconi alle suore Misericordine in occasione dell’anniversario della morte di Eluana Englaro, Gianfranco Fini ha immediatamente replicato: “Avrei preferito il silenzio”.
Da un lato niente di nuovo: ogni volta che Berlusconi parla, Fini preferirebbe che tacesse. Ma questa volta c’è qualcosa in più che vale la pena di notare: in quella richiesta di silenzio è racchiuso gran parte di Fini come politico e del finismo al seguito.
Questa volta infatti Berlusconi non ha fatto una dichiarazione politica scorretta, non ha raccontato una barzelletta, non se l’è presa con i giudici. Questa volta Belrusconi ha dato voce ai suoi sentimenti e alle sue convinzioni e ha scritto alle suore che custodivano Eluana tutto il rammarico per la sua morte.
Fini avrebbe preferito che quelle convinzioni e quei sentimenti il presidente del Consiglio se li fosse tenuti per sé, li avesse rinchiusi nella sua coscienza e tenuti alla larga dallo spazio pubblico. Sono questioni delicate, pensa Fini, che dividono, che smuovono sentimenti forti, che attengono al credo di ciascuno e che mettono in crisi tolleranze e convivenze. Tutte cose che il presidente della Camera vorrebbe lontane da suo orizzonte politico e dalla sua pubblica e recente predicazione.
Fedi, religioni, convincimenti, principi, sono cose che disturbano, increspano la superficie della vita civile e vanno tenute a bada nel chiuso di ciascuno di noi.
L’invito al silenzio di Fini ricorda (per carità, da lontano, lontanissimo) la Chiesa del silenzio nei paesi comunisti che forse sarebbe ancora muta senza la forza e l’invito a non aver paura di Karol Woytila. E ricorda la condizione di silenzio dei cattolici nei paesi musulmani, costretti ad una fede solitaria e priva di testimonianza.
Fini sarebbe il leader perfetto in un mondo perfetto. Un mondo in cui si morisse sempre sorridenti nel proprio letto, senza traumi o malattie, dove gli uomini fossero tutti fratelli e gli immigrati tutti santi, un mondo senza guerre e senza terrorismo, senza fondamentalismi. Un mondo dove realizzare tutti i desideri e tutti diritti in uno spazio senza limiti d’ingombro. Di questo mondo Fini sarebbe sovrano illuminato e duraturo garante.
Il mondo in cui vive purtroppo è un altro, per questo vorrebbe sentirne parlare il meno possibile e per questo la narrazione che lui e i suoi seguaci ne danno è spesso una soffusa mistificazione.
La vicenda Englaro è un esempio lampante di questa fuorviante narrazione che racchiude due errori, uno antropologico e uno politico.
Secondo Fini e i finiani davanti alla tragedia di una vita appesa a un filo l’alternativa è questa: o ci si attiene al volere arcigno e abusivo dello Stato (la legge sul testamento biologico) o ci si affida al proprio libero convincimento e alla propria coscienza. Oppressione statale contro libertà: messa così chi non sceglierebbe come suggeriscono Farefuturo e i suoi analisti.
Le cose però non stanno così. Nel vuoto legislativo tuttora aperto in attesa dell’approvazione della legge sul testamento biologico l’alternativa era questa: o recido quel filo nel segreto di una stanza d’ospedale, con l’auto di qualche buona infermiera o di un medico compassionevole, o – come ha preferito fare menandone gran vanto, Beppino Englaro – trovo un giudice che mi autorizzi alla pubblica e acclamata recisione di quel filo.
Nel vuoto legislativo, tutto è affidato all’arbitrio del giudice, alla sua coscienza, ai suoi convincimenti. Se si incappa in quello sbagliato se ne può cercare un altro da qualche altra parte, fino a ottenere la sentenza che più ci piace e ci soddisfa.
L’alternativa in gioco con la legge da approvare è ancora diversa e dice: vuoi affidare la fine della tua vita all’arbitrio di un giudice, lui sì funzionario di Stato in toga e tocco, espressione solitaria e imperscrutabile dell’imperio della Giustizia, o preferisci che ci sia una legge, frutto di una ampia maggioranza parlamentare e in definitiva della più genuina volontà popolare, che regoli per te e per tutti allo stesso modo gli ultimi atti del tuo passaggio terreno?
Fini e i finiani, per altri versi custodi intransigenti della sacralità democratica del Parlamento, considerano la legge un sopruso dello Stato, mentre vedono nell’arbitrio del giudice una risorsa di libertà personale.
Scrive Benedetto Della Vedova sul sito di Farefuturo citando Vittorio Possenti, per argomentare contro la legge, che “non tutti gli imperativi morali debbano essere tradotti in norme giuridiche vincolanti”. Però – sembra di capire – possono essere tradotti in sentenze giudiziarie vincolantissime, come quella che ha permesso di sospendere idratazione e alimentazione per Eluana. C’è qualcosa che non torna.
Ed è l’aspetto altropologico che risiede in un malinteso senso della compassione. Scrive ancora Della Vedova alludendo anche lui alla lettera di Berlusconi: “Forse sarebbe bene che la memoria di Eluana fosse lasciata vivere nel ricordo intimo di quanti l’hanno amata e accudita per tanti anni e a cui lei ora manca come a nessun altro”. Per un momento vien fatto di pensare proprio a quelle suore Misericordine che hanno a lungo amato e accudito Eluana e a cui appunto era indirizzata la lettera. Poi Della Vedova chiarisce aggiungendo “la sua mamma e il suo papà”.
Ma l’attimo di fraintendimento aiuta a pensare: forse che l’amore e le cure e il dolore delle suore di Lecco sono meno degni di compassione di quelli dei genitori di Eluana? Forse che Eluana stessa, dei cui veri desideri sappiano così poco, non merita lei soprattutto la compassione di chi è vittima? L’idea che la nostra vita e la nostra sorte appartenga in primo luogo a chi ci ha generato e non anche a chi ci ha amato in modi e momenti diversi ( a cominciare da mogli, mariti, figli, amici per finire magari con le suore Misericordine) non è convincente e non può essere un principio assoluto. Nel mondo perfetto di Fini tutti i genitori sono perfetti, amorevoli e concordi (come è certo il caso dei coniugi Englaro…), ma in quello vero sappiamo purtroppo che non è così. Anche per questo serve una legge.
Sandro Magister sul suo blog – in merito ad altri fatti – propone una interessante lettura che qui torna a proposito: una sorta di requisitoria scritta da Monsignor Michel Schooyans, ordinario di antropologia all’Università di Lovanio, dal titolo “Le trappole della compassione”. Vi si scoprono i molti errori che può suscitare un malinteso senso di compassione. Come quello di preferire il silenzio alla verità.