Fini fa il capo-corrente ma il Cav. avverte: nel Pdl decide la maggioranza
21 Aprile 2010
Fini benedice la sua corrente. Una minoranza organizzata, dentro il Pdl. Berlusconi non vuole tornare ai riti della vecchia politica, la logica delle correnti non gli appartiene e ai suoi confida che non ha senso. Ma se questa è la scelta del presidente della Camera c’è una regola democratica che vale sempre: in un partito si decide a maggioranza e la minoranza deve adeguarsi. Alla vigilia della direzione nazionale del partito, l’inquilino di Montecitorio scopre le sue carte, si conta e si mette alla testa di una corrente d’area che non guarda più solo al suo ex partito. E del resto nella giornata clou tanto attesa, si consuma quello che molti parlamentari definiscono il "vero congresso" di An.
Da un lato l’ex leader che a Montecitorio riunisce cinquanta parlamentari, mette nero su bianco chi sta con lui, perché lui non ha intenzione “di stare zitto né di togliere il disturbo”. Dall’altro settantacinque parlamentari guidati dai colonnelli Matteoli, Gasparri, Alemanno, La Russa che sottoscrivono un documento "alternativo" in cui al primo punto mettono il progetto politico: il Pdl come "scelta irreversibile", a prescindere dalle persone. E dunque a prescindere da Fini.
Nella Sala Tatarella il presidente della Camera dai suoi (36 deputati e 14 senatori) riceve carta bianca per la direzione nazionale del Pdl dove parlerà solo di “questioni politiche”, che sono poi quelle sulle quali dopo il voto delle regionali ha aperto il contenzioso col Cav.: strapotere della Lega, Sud, economia (con una critica indiretta alla linea Tremonti sulla necessità di ridurre la pressione fiscale), occupazione, futuro del Pdl.
Ma al tempo stesso dai suoi riceve una raccomandazione netta: d’ora in poi sia lui a parlare direttamente e non per interposta persona. Un monito chiaro che racchiude l’insofferenza di molti finiani nei confronti dell’iperattivismo di Bocchino e Granata da un lato e di Farefuturo (il think tank del presidente della Camera) dall’altro. Non mancano poi posizioni critiche come quelle dei "moderati" Manlio Contento e Amedeo Laboccetta che non vedono di buon occhio l’approdo ad una corrente. Certo è che dopo aver minacciato la costituzione di gruppi parlamentari autonomi e scissioni ricevendo da Berlusconi un sostanziale “pensaci bene, torna sui tuoi passi, ma se poi lo fai te ne assumi la responsabilità”, Fini ha dovuto costatare che nelle sue truppe non tutti erano disposti a seguirlo (ad esempio i 14 senatori che gli hanno chiesto espressamente di frenare).
Per questo ha dovuto rivedere la tattica e scegliere l’unica via d’uscita possibile: una componente di minoranza nel Pdl che intende guidare nel solco di quella destra moderna che considera l’evoluzione naturale di Alleanza Nazionale. In realtà, la sensazione è che sia finita un’epoca, quella del partito di via della Scrofa, o forse, che siano nate due An. E’ qui lo spartiacque: se per i fedelissimi del presidente della Camera si sta nel Pdl con Fini, per gli altri ex aenne viene prima il progetto politico: va bene il dibattito interno – è il ragionamento – ma deve essere funzionale alla crescita del partito e finalizzato a sostenere il governo, non a minarne la forza e l’efficacia.
Non è la prima volta che l’inquilino di Montecitorio chiede agli ex aenne chi sta con lui e chi no. Nel dicembre scorso quando già si ventilava dell’ipotesi di gruppi autonomi e i rapporti con Berlusconi erano tesissimi, Fini convocò i colonnelli per verificare quanti fossero disposti a seguirlo in un eventuale percorso parallelo. Ma alla frase "chi non sta con me sta con Forza Italia" seguì la presa d’atto che nessuno, in realtà, era disposto a farlo. Anche in quell’occasione l’ex leader di An sottopose ai suoi lo stesso chaier de doleances che oggi ripropone e che ruota attorno al concetto del "patto di consultazione" permanente e del ruolo non adeguato che nel partito è stato riservato al co-fondatore (l’ormai famoso 70 a 30 tra Fi e An).
A quella fase seguirono i pranzi settimanali col Cav. e la sensazione di una ritrovata sintonia tra i due leader. Ma a distanza di quattro mesi, nonostante la vittoria elettorale del Pdl (regionali e amministrative) le cose non sono cambiate. La novità è che oggi Fini formalizza quello che in fondo da tempo meditava: guidare il dissenso interno, canalizzarlo su di sè e ripartire da qui per costruire la leadership. Con un tempo ragionevole da ottimizzare: un anno, in attesa del congresso nazionale. Davanti ai suoi Fini respinge al mittente le accuse di protagonismo, dice di non essere mosso da gelosia o da personalismi (il riferimento è a quanti in questi giorni ipotizzavano la sua forte irritazione di fronte alle ipotesi di un Tremonti o di un Alfano in pole position per il dopo-Berlusconi) e che con Berlusconi intende parlare solo di “questioni politiche”.
Nelle stesse ore a Palazzo Grazioli convoca i vertici del Pdl e quelli della Lega (manca Bossi) per fare il punto sulla direzione con i primi, e trattare gli assessorati nelle regioni del Nord con i secondi. Ma è chiaro che sul tavolo c’è anche il dossier Fini. Berlusconi, riferiscono alcuni partecipanti, reagisce con un misto di delusione, irritazione e cautela alle istanze del presidente della Camera: da un lato non accetta ulteriori logoramenti anche perché non intende farsi trascinare in quello che definisce il ”teatrino della politica”; dall’altra non vuole forzare la mano, con strappi dalle conseguenze imprevedibili, specie in una fase così delicata. Dunque, attende di capire con esattezza cosa vuole veramente l’ex leader di An. Con i suoi il Cav. discute degli aspetti organizzativi della direzione nazionale di domani (in particolare della ‘scaletta’ e della replica alla relazione del presidente della Camera), ma non ha ancora deciso la linea. Lo farà oggi – fanno sapere dal Pdl – quando si occuperà della relazione anche se per ora l’orientamento è quello di chi è determinato ad andare avanti senza farsi condizionare troppo.
Va bene il confronto – è il ragionamento del premier – ma alla fine è la maggioranza che decide e la minoranza si deve adeguare. C’è poi un altro aspetto che molti nel Pdl evidenziano: la sensazione che dalla riunione coi fedelissimi il presidente della Camera esca indebolito. Non solo perché la maggioranza degli ex-An, con il documento dei "settantacinque" ha dimostrato di voler restare nel Pdl e dalla parte del Cav., ma anche perché il documento dei finiani è praticamente identico a quello firmato sabato scorso dai quattordici senatori vicini al presidente della Camera. Lo stesso che, non a caso, fu applaudito da Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello proprio perché scongiurava l’ipotesi di scissione in un gruppo autonomo.
Resta il fatto che, come osservano numerosi esponenti pidiellini, nell’immediato Fini potrebbe giocare la sua partita in Parlamento, soprattutto alla Camera. Come? Attraverso i numeri e dunque il voto dei fedelissimi che potrebbe risultare determinante su alcune questioni strategiche per il governo. Un rischio ben presente anche al Cav. che non a caso nel vertice a Palazzo Grazioli avrebbe fatto notare che da ora in poi Fini non può fare più il bastian contrario in Aula. E del resto sono in molti nel partito a ritenere impensabile che con la costituzione di una componente di minoranza sia possibile continuare a fare il controcanto e condizionare il partito con richieste di incarichi per i suoi uomini "perché Fini non si sente adeguatamente rappresentato".
Domani si avrà chiara la percezione se quella del presidente della Camera è una strategia per consolidare il Pdl e non per indebolirlo, come lui stesso ha ripetuto anche ieri, oppure se il cammino intrapreso lo porterà tra qualche tempo allo strappo definitivo che oggi gran parte dei suoi fedelissimi è riuscita a scongiurare.
Il paradosso è che nel 2005 Gianfranco Fini davanti all’assemblea nazionale del suo partito definì le correnti "metastasi". E solo un anno fa, al congresso fondativo del Pdl, ripetè più o meno lo stesso concetto. Oggi, evidentemente, ha cambiato idea.