Fini, tra soliti riti e tentazioni pericolose

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Fini, tra soliti riti e tentazioni pericolose

13 Gennaio 2009

Il duro scontro fra il Presidente Fini ed il Governo in merito alla questione di fiducia posta dall’Esecutivo alla Camera sul d.l. anti-crisi non deve destare scandalo. L’episodio può essere interpretato come uno di quei “riti” istituzionali che immancabilmente caratterizzano la vita delle istituzioni democratiche: un Presidente di Assemblea che interviene duramente nei confronti del Governo a tutela delle prerogative del Parlamento. Ove così fosse non ci sarebbe nulla di male: le democrazie si nutrono di riti che possono forse apparire inutili ma che in realtà rappresentano essenziali meccanismi di garanzia del funzionamento del sistema.

I presidenti delle assemblee parlamentari rappresentano il vertice degli organi della rappresentanza popolare ed è quindi legittimo ed opportuno che mantengano un profilo di autonomia rispetto al vertice dell’Esecutivo. Tale esigenza è tanto più avvertita nell’attuale fase storica nella quale il Governo forte di una legittimazione elettorale quasi diretta, con una maggioranza parlamentare compatta in una misura che il nostro Paese non ricordava dai tempi del centrismo degasperiano ed un’opposizione in stato quasi confusionale, rischia di non incontrare quei contrappesi indispensabili al buon funzionamento di una democrazia.

Nulla di male dunque? Nulla di male a parte una sgradevole sensazione che comincia a prender piede. Ad osservarne il comportamento nei primi otto mesi di legislatura, sorge legittimo il dubbio che il Presidente Fini sia caduto nella trappola e non sia riuscito, neanche lui, a sottrarsi alla ferrea “Legge della Presidenza della Camera” della Seconda Repubblica. A ben vedere dal 1994 tutti i Presidenti della Camera, ad un certo punto del loro mandato, hanno immaginato di poter giocare la propria delicata funzione istituzionale come strumento in contrapposizione con il Governo in carica per accumulare un proprio personale potere contrattuale politico da giocare, come “riserva della Repubblica”, di fronte alla crisi dell’equilibrio politico in atto. Le cronache ci narrano come sono andati a finire questi tentativi. Tre dei quattro presidenti non siedono neppure in Parlamento (Pivetti, Violante, Bertinotti) ed uno, il simpatico Pierfurby Casini, si agita fra sogni di grandeur (rompere l’attuale bipolarismo) e più prosaiche esigenze di sopravvivenza politica.

La tentazione è comprensibile: i presidenti delle assemblee parlamentari rivestono la seconda e la terza carica dello Stato ed è quindi naturale che pretendano di giocare a tutto campo la propria partita politica. Occorre però non dimenticare le regole fondamentali della democrazia maggioritaria che normalmente penalizzano quegli esponenti che si adoperano per azzoppare il leader della coalizione di cui fanno parte. Nel caso di Fini poi vi sarebbe un’aggravante specifica: qualora l’attuale equilibrio del centro – destra dovesse saltare e dovesse naufragare il progetto del PdL (perché di progetto ancora trattasi) sarebbe proprio lui a pagare il prezzo più alto.