Finite le elezioni in Egitto protestare torna a costare la vita
24 Dicembre 2011
Fino al 16 dicembre si è assistito ad una relativa calma in Egitto, ma è durata giusto il tempo del periodo elettorale. In seguito i militari hanno ripreso ad accanirsi contro i manifestanti, che non si sono sentiti rappresentati alle elezioni. Non è ancora ufficiale la vittoria dei Fratelli musulmani, ma il gruppo è sempre più visto come collaboratore del regime.
E’ salito a 16 il numero delle vittime degli scontri di questi giorni a piazza Tahrir e nei pressi del Consiglio dei Ministri egiziano al Cairo. Lo ha reso noto l’altro ieri il Ministero della Sanità, secondo cui i feriti sono ben 928. Dei 638 ricoverati in ospedale 561 sono stati dimessi, mentre altri 290 sono stati assistiti direttamente durante le manifestazioni.
Il premier egiziano Kamal El Ganzuri ha accusato i Paesi del G8, che avevano promesso 35 miliardi di dollari di aiuti ad Egitto e Tunisia, di non aver inviato nulla. Neanche dagli USA sarebbero arrivati i 2, 24 miliardi previsti. Soltanto dai Paesi arabi, secondo El Ganduri, è arrivato 1 miliardo, ma solo uno dei 10, 5 attesi. Invece 9 miliardi hanno lasciato l’Egitto in seguito alla rivoluzione di gennaio.
E’ una situazione tutt’altro che sotto controllo del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) che ha preso il potere dopo Mubarak. Durante i disordini che hanno portato alle dimissioni dell’ ex rais egiziano non si erano mai verificati scontri tra la popolazione in rivolta e i militari, che godevano della massima popolarità ed erano visti come protettori dei manifestanti. Essi stavano defilati, lasciando agire le forze di sicurezza, che si muovevano sotto le direttive del Ministro dell’Interno.
Solo in aprile, quando le forze dell’ordine che includevano la polizia militare hanno rimosso forzatamente i rimanenti dimostranti accampati in piazza Tahrir, è emerso che i soldati non erano così “rivoluzionari” come molti attivisti avevano sperato. Il 9 ottobre, con il soffocamento nel sangue di una manifestazione di egiziani cristiani davanti alla tv di Stato Maspero, anche le forze di sicurezza erano coinvolte nelle violenze, sebbene i militari abbiano negato.
In quella circostanza la SCAF ha ingiustamente accusato i manifestanti cristiani di aver scaricato munizioni sui soldati. In realtà è stata la stessa SCAF a permettere a orde di musulmani di prendere di mira i copti. L’intento dei militari era quello di utilizzare le violenze per dividere l’opposizione e mantenere saldo il proprio potere. Quasi sei settimane più tardi, il 19 novembre, il Cairo ha visto le più sanguinose violenze dall’inizio della “primavera” egiziana.
Più di 40 persone sono state uccise in cinque giorni di scontri con le forze di sicurezza all’interno e attorno a piazza Tahrir. Le violenze sono cessate solo quando il capo della SCAF, maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, ha fatto una serie di concessioni ai manifestanti e soprattutto i militari hanno eretto delle barriere di cemento nelle strade più colpite dai tumulti.
Arriviamo al 16 dicembre e al riesplodere degli scontri, il cui simbolo è ormai diventata “la ragazza col reggiseno azzurro”, una manifestante picchiata, trascinata per terra e mezza denudata dai soldati. Al fatto, emblema della misoginia e della durezza dell’esercito contro la popolazione scontenta, ha fatto seguito una massiccia manifestazione di donne che sventolavano la foto della ragazza e denunciavano proprio le violenze e gli abusi, anche sessuali, subiti dai militari.
La giovane attivista Mona Seif, 25 anni, è figlia di un avvocato dei diritti umani imprigionato per cinque anni sotto Mubarak e di un’attivista e docente di matematica (entrambi di sinistra). Mona è anche leader della Campagna contro i processi militari (ai quali l’esercito da febbraio ha sottoposto almeno 1.200 civili). Riguardo alle violenze inferte alle donne da parte dell’esercito ha spiegato: “L’uso della strategia della vergogna contro le donne è un retaggio dell’era Mubarak.
L’esercito l’ha adottata subito ma in quest’ultimo giro di scontri, dal 16 dicembre, è diventata davvero una loro tattica chiave”. Tuttavia tale strategia non sta affatto funzionando, anzi. “Non penso che i militari afferrino l’idea che più diventano brutali più incitano la gente alla rivolta”, ha dichiarato ancora Mona, il cui marito Alaa, noto blogger, è in carcere da ottobre.
Il 6 dicembre la giovane coppia ha avuto un bambino, chiamato Khaled in onore di Khaled Said, blogger-simbolo della rivolta torturato a morte il 25 gennaio, ma il padre ha potuto vedere il neonato solo da dietro le sbarre.