Flessibilità, conciliazione e opportunità: le regole non scritte delle quote rosa
16 Marzo 2011
di F. C.
Certo. Sarebbe stato meglio non avvertire il bisogno di ricorrere a una legge. Perché è vero che è stato come sancire l’ingiustizia. Come ammettere che quel posto spetta per gentile concessione. Il che è un errore, tanto di metodo quanto culturale. Ma in mancanza di una presa di coscienza e soprattutto considerando la lentezza con cui in Italia vengono recepiti i segnali di trasformazione che arrivano dalla società, era importante riuscire a dare un segnale.
Ieri l’iter tormentato di questa legge ha tagliato il traguardo del Senato. Dopo un lavoro bipartisan, il testo è più “leggero” rispetto al testo approvato dalla Camera: l’entrata in vigore delle norme slitta a dodici mesi dall’approvazione della legge, con una percentuale di un quinto di donne nel primo mandato compreso tra il 2012 e il 2015. Le quote rosa andranno poi a regime con una percentuale di presenze femminili pari a un terzo nel secondo mandato tra il 2015 e il 2018.
C’è ora da chiedersi se le quote rosa facciano davvero bene alle donne. Forse no. Perché a ben vedere sono uno strumento controverso che non certamente raggiungerà i risultati sperati. Però possono aiutare – momentaneamente, o meglio, transitoriamente – a sollevare un problema e a tamponarlo. In attesa che a cambiare sia la mentalità diffusa, non solo degli uomini, ma anche delle stesse donne.
Il via libera alla legge fotografa, infatti l’immagine di un Paese bloccato, che non concede spazio ai talenti. E questo vale per le donne, ma vale anche per i giovani. Vale per le aziende, ma vale anche per la politica. Vale per qualsiasi ruolo chiave. Perché questo immobilismo, al di là di antistoriche battaglie sulla parità, si risolve in conservatorismi e arretratezze, che non giovano al futuro del paese e alla sua crescita.
In questo quadro, dunque, la scelta di ricorrere alle quote rosa imposte per legge non è la soluzione, ma almeno è un primo passo. Perché fare qualcosa è comunque meglio che lasciare le cose come sono. Fatta la legge, dunque, la parola ora passa alle istituzioni locali. Regioni, Province, Comuni. E’ qui che deve cominciare la vera rivoluzione. Perché dire quote rosa significa dire tante cose: flessibilità, conciliazione, sgravi fiscali. In una parola: opportunità. Che consentano alla donna di poter lavorare, coniugando le esigenze della carriera con quelle della famiglia.
Un esempio è la nostra Regione, l’Abruzzo, dove la presenza delle donne nelle istituzioni, è quasi invisibile. In Giunta regionale c’è solo una donna, in Provincia di Pescara nessuna. Va un po’ meglio dal punto di vista delle imprese, dove l’Abruzzo è al terzo posto in Italia per tasso di femminilizzazione. Quasi un’azienda su tre è gestita da donne. Ma il dato vero, su cui riflettere è un altro. Ed è l’andamento delle imprese gestite da donne che, in tempo di crisi, non solo hanno retto, ma hanno fatto da traino e da motore.
E dall’Abruzzo all’Europa il passo è sorprendentemente breve. Perché a confortare questi dati ci sono i risultati di un’autorevole ricerca condotta da Goldman Sachs, per cui basterebbe colmare il divario di genere per vedere il Pil europeo segnare un significativo balzo in alto. In questo senso dare maggiore spazio alle donne, diventa quindi anche una questione di profitto, se continua a essere vera l’equazione secondo cui dove ci sono donne al vertice le performance sono migliori.
Sarà la maggiore resistenza alla fatica, la motivazione al lavoro, il senso della giustizia e la tendenza all’armonia. Fatto sta che anche secondo un altro studio, questa volta di Cerved Group che ha analizzato un campione di duemila imprese italiane, tutti gli indici sono positivi per le aziende a maggior gestione femminile.
Forse, più semplicemente, è una questione di abitudine. Perché, che ci si trovi dietro la scrivania di grande azienda o tra le mura domestiche, saper gestire è un’arte che si impara. Non sono le donne a prendere la maggior parte delle decisioni in famiglia? Che si tratti della lista della spesa, dei calzini del marito o di scelte più importanti come l’educazione dei figli, non sono sempre le donne a dover si assumere la responsabilità di decidere?
Mutuando questo principio, quei paesi che per primi hanno deciso di colorare di rosa la classe dirigente come la Norvegia, la Spagna e l’Islanda, non sembrano pentiti. Anzi. Intanto la Regione Abruzzo ha destinato risorse importanti alle misure di conciliazione che sono il presupposto fondamentale per consentire alle donne di uscire di casa. Come dire, il primo passo verso le pari possibilità. E poi?
Si entra nel delicato tema del “che fare”. Ospedali, università, finanza, prima ancora che politica e impresa privata, hanno bisogno dell’apporto delle donne. E non può certo essere una legge a stabilire quante donne devono sedere nei Consigli di amministrazione, in Parlamento o nei consigli comunali.E a chi obietta che le quote rosa non faranno altro che aprire nuove voragini di raccomandazioni con buona pace del merito è difficile dare torto.
Ma questa è un’altra storia. Che vale da sempre e per tutti. Ed è quella dell’opportunità di adottare criteri meritocratici. La meritocrazia infatti imporrebbe una discussione completamente nuova. Perché significherebbe introdurre nuove modalità si selezione dei gruppi dirigenti. E in quel caso, di quote rosa di sicuro non ci sarebbe più bisogno.