Fondi sovrani: il vero pericolo arriva dalla Cina

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Fondi sovrani: il vero pericolo arriva dalla Cina

Nell’analisi dei fenomeni economici
attuali può capitare spesso di maturare una visione parziale, incompleta.
Specie in epoca di globalizzazione, quando l’accavallarsi degli eventi è
alquanto tumultuoso, e la frenesia dei mercati complica le riflessioni. Le
attenuanti non mancano, soprattutto se gli argomenti su cui si dovrebbe formare
un giudizio appaiono lontani ed astratti.

Ma quello dei fondi “sovrani” è un
capitolo molto importante. Troppo – certo – perché si distolga lo sguardo dai
suoi snodi principali e si indulga a estatica contemplazione del proprio
ombelico.

E’ preoccupante che invece ci caschi un
foglio di nicchia come Il Riformista. Lo fa con un agile articoletto in seconda
di mercoledì 8 gennaio 2008.

Il pezzo, prendendo spunto dai dati sulla
produzione energetica tedesca, arriva a parlare dei fondi “sovrani”: fondi a
denaro e controllo pubblico, che attualmente raccolgono qualcosa come 3.000
miliardi di dollari, oltre il doppio di tutti gli hedge fund al mondo messi assieme.

Quella che conta, però, non è la solita
tiritera su quanto sia bella l’energia rinnovabile.

E’ cosa nota, infatti, che il fabbisogno
italiano sia tanto e tale che solo il ritorno al nucleare può emanciparci dalle
bollette energetiche salate che paghiamo.

Pazienza, insomma, se ancora una volta ci
troviamo come al solito di fronte all’idea – un controsenso scientifico oltre
che economico – che l’eolico possa risollevare le sorti del fabbisogno
energetico nazionale.  E, in mezzo a un
gran farneticare di lobbies
americane, si dimentica che proprio attorno al business delle energie rinnovabili in Italia si sta costruendo un
monumentale giro di contributi pubblici di ogni tipo, snaturando le
caratteristiche del mercato.

Il problema – quello serio – è l’analisi
dei fondi “sovrani”, che Il Riformista limita ai fondi arabi. L’idea? Che si
possa trattare di una testa di ponte in Occidente per contrastare le ricerche
sull’eco-energia.

In sé, non è sbagliato ritenere che i
fondi “sovrani” siano anomalie, autentiche distorsioni dei mercati. Si tratta
infatti di soggetti statali che agiscono nella dimensione privatistica dei mercati
finanziari, creando vistosi conflitti di interesse e mettendo a dura prova
l’impianto regolamentare attuale.

Ma è bene non fare di tutte le erbe un
fascio, mettendo sullo stesso piano i fondi norvegesi, americani (famoso quello
dell’Alaska), arabi, russi e cinesi. Le differenze all’interno della categoria
esistono, e sono forti.

Sui fondi “sovrani” degli sceicchi, Il
Riformista tralascia almeno due aspetti. Il primo: da anni i produttori di
petrolio cercano di convertire le proprie rendite naturali, destinate ad
esaurirsi, in rendite finanziarie. Ne sappiamo qualcosa noi Italiani, e anche
da parecchio tempo, visto che negli anni ’70 assistemmo all’ingresso di
Gheddafi nel capitale azionario FIAT.

Il secondo: spesso e volentieri, i fondi “sovrani”
arabi barattano la propria rinuncia ai diritti di voto (da esercitare nelle
assemblee sociali delle società partecipate) con diritti patrimoniali
“maggiorati”, come è avvenuto nel caso di Citigroup. Come a dire che, in cambio
di rendimenti finanziari, rinunciano a “pilotare” i propri investimenti.

Queste motivazioni sono invece del tutto
assenti nel caso dei fondi “sovrani” cinesi, rimpinzati di soldi incamerati
grazie al sistema di cambi artificialmente bassi rispetto al dollaro.

Nel caso dei fondi cinesi, che non a caso
preoccupano gli statisti occidentali molto più di quelli arabi o russi, tutto
dà a intendere che si tratti di vere e proprie forme di espansionismo
geopolitico per entrare in settori strategici: banche, assicurazioni,
infrastrutture.

E bisogna essere degli autentici gonzi a
credere alle dichiarazioni degli alti papaveri cinesi, che sul Financial Times
dell’8 gennaio scorso lamentavano presunte discriminazioni
– proprio così – a danni dei fondi di Paesi emergenti.

Detto da un regime che vanta campi di
concentramento efficientissimi, controlli sistematici sulle nascite,
repressione brutale e chi più ne ha più ne metta, quanto a faccia tosta Pechino
proprio non è messa male.