Forse è giunto il momento di fare i conti anche con Montanelli
05 Dicembre 2008
Dovendo recensire il magistrale libro di Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso (Ed. Le Lettere), che tante pagine dedica al fondatore di ‘Rivoluzione Liberale’, sono andato a rileggermi un po’ di saggistica gobettiana, ivi compresi gli articoli apparsi sui giornali in occasione dei vari anniversari –nascita, morte, fondazione della casa editrice etc.–che hanno rinverdito il ricordo del grande antifascista torinese. Nel materiale raccolto, mi ha particolarmente colpito una ‘stanza’ di Indro Montanelli, pubblicata sul ‘Corriere della Sera’ del 21 febbraio 1996 , Piero Gobetti: l’ottimismo dell’azione, che, nella sua brevità, mi è sembrata il compendio di vizi e di equivoci antichi.
A differenza di tanti colleghi universitari che storcono il muso davanti alle ricerche storiche di Montanelli–trattandolo come Benedetto Croce aveva, a suo tempo, trattato Guglielmo Ferrero, una straordinaria figura di intellettuale che, per altezza di ingegno e inventiva ‘politologica’ (gli si deve la messa a fuoco della categoria della ‘legittimità politica’ analizzata concettualmente e illustrata storicamente in quel gran libro che è ‘Il Potere’ del 1942) non aveva nulla a che vedere, absit iniuria verbis , coll’estroso e non conformista Indro—ho sempre nutrito grande rispetto per il ciclo della storia d’Italia, specialmente dell’Otto e del Novecento. Nei ritratti di Mazzini, di Garibaldi, di Giolitti, di Mussolini emergono un buon senso antico, un solido realismo, una capacità di rimanere sempre con i piedi per terra che non escludono la comprensione e l’ammirazione per gli autentici ‘profeti’. Montanelli sapeva distinguere assai bene gli idealisti dai pataccari e anche quando non ne condivideva valori e progetti politici non risparmiava ai primi elogi e riconoscimenti sinceri, in virtù di quella “bontà dei cavalieri antichi” innata in lui, uscito da una vecchia borghesia intellettuale, profondamente radicata nella provincia italiana.
La pronta e sovente geniale intuizione psicologica, però, costituiva la sua grandezza ma anche il suo limite: l’attenzione alla personalità, al ‘carattere’, finiva per relegare in secondo piano le ‘idee’ sicché l’alfiere diventava più importante della bandiera e le passioni e i temperamenti più rilevanti dei partiti e dei programmi.. Era anche questa una dimensione dell’ ‘eterno qualunquismo’ italiano, un costume del cuore e della mente che non ho mai demonizzato e al quale, anzi, ho sempre guardato con simpatia ma che aveva, indubbiamente, i suoi “difetti”. Forse uno dei più gravi era la tendenza a far passare i grandi drammi storici sotto le forche caudine della mentalità piccolo-borghese, riportandoli al quotidiano, al familiare quando non al gossip. Poiché l’importante era il “racconto umano”, l’incontro o lo scontro tra due anime, il resto diventava scenografia e non si andava troppo per il sottile quanto alla sua accuratezza o verosimiglianza.
Nella ‘stanza’, rispondendo a Gianfranco Passalacqua, che a nome della Federazione dei Liberali Italiani, gli chiedeva “una sua riflessione sulla figura di un grande e autentico liberale quale certamente è stato Gobetti”, in occasione dell’anniversario della sua morte (16 febbraio 1926), Montanelli non rinunciava a un registro biografico, per nulla autocelebrativo come quello che caratterizzò sempre la buonanima di Giovanni Spadolini—Montanelli gli riservò una delle sue battute più salaci:”tutti gli uomini si amano ma solo Spadolini si ricambia”— bensì ispirato a un realismo assai poco indulgente che non esitava a mettere a nudo anche i momenti grigi e mediocri di una vita. “Fu al ritorno dalla Spagna nazionalista, di dove le autorità militari italiane mi avevano cacciato per le mie corrispondenze, che scoprii Gobetti attraverso il suo erede più diretto e qualificato, Carlo Rosselli”, ricordava a Passalacqua ma aggiungeva, facendosi umile, “non ne fui conquistato subito, anche perché quasi in contemporanea lessi le pagine ingenerose e addirittura acide dedicategli da Benedetto Croce, che non lo amava e che noi giovani non ancora antifascisti, ma frondisti in senso liberale, consideravamo il nostro maestro”. Sennonché quali erano poi “le pagine acide e ingenerose” che Croce, sempre esaltato da Gobetti—v., ad esempio, gli articoli su ‘Energie Nove’ e su ‘La Rivoluzione liberale “Benedetto Croce e i pagliacci della cultura”, e “Croce oppositore” tante volte citati e ricordati, tra gli altri, nel bel libro di Daniela Coli, Croce Laterza e la cultura europea, Ed. Il Mulino—avrebbe scritto sul giovane torinese, la cui vedova, Ada Prospero, sarebbe diventata una sua valente collaboratrice editoriale nel settore delicatissimo delle traduzioni? In realtà, a pronunciarsi contro il Gobetti di Risorgimento senza eroi, era stato Adolfo Omodeo sulle pagine del ‘Leonardo’—una rivista sicuramente nota a Montanelli—in cui si stigmatizzava “il pregiudizio satanico-luciferiano che il ribelle sia più bello e più degno del conservatore, un amore della rivoluzione per la rivoluzione |…| Quasi che nulla di buono possa farsi che non sia esplosivo; quasi che non abbia pregio la salda continuazione del passato e lo sviluppo in noi delle sue tradizioni”. Croce? Omodeo? Nel calore della narrazione la verità storica diventava una inutile pedanteria.
Ancora più discutibile, però, era il nesso posto da Montanelli tra la estraneità di allora al mondo di Gobetti e “la leggenda del suo contrasto con Prezzolini, che trovavo molto più congeniale alle mie idee | certo Indro era fascista mentre l’altro faveva ‘l’apota’.. |”. Una mera leggenda–sottolineava col tono spregiudicato di chi crede solo ai fatti—smentita, nel dopoguerra, dall’incontro a New York con l’ideatore della ‘Voce’..”Io e Gobetti—gli aveva detto Prezzolini—eravamo perfettamente d’accordo su ciò che gli italiani dovevano fare per diventare un Paese veramente liberale. Il dissenso era questo: lui era convinto che gli italiani fossero capaci di farlo. Io, no. Il contrasto tra noi non fu mai ideologico, ma soltanto genetico. Lui era un piemontese di formazione culturale franco-britannica: veniva da Tocqueville. Io sono toscano, e vengo da Guicciardini. In lui prevaleva l’ottimismo dell’azione; in me prevale il pessimismo della ragione. Più tardi ho sentito favoleggiare di una ‘rottura’ fra noi, che non avvenne mai. Gobetti morì quasi tra le mie braccia. E se il liberalismo italiano fosse fatto di uomini come lui, sarei un liberale militante”.
Se veridico, il racconto è davvero sconcertante oltreché un falso storico. Che Gobetti , negli anni venti, fosse vicino a Prezzolini è vero, come ricordava malinconicamente, nel suo diario del 1924, un testimone insospettabile come Salvemini: "è di moda oggi in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere ‘rivoluzionari’, disprezzare la ‘democrazia’ quanto e più che non facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, anarchici e anche uomini come Prezzolini, Gobetti ecc. dimostrano per la ‘democrazia’, è documento dell’incultura politica e della incapacità ad analizzare le proprie idee, che è la malattia fondamentale dei ‘democratici’ italiani e non italiani”. Ma la vicinanza—o meglio la vicinanza/lontananza come avrebbe chiarito Augusto Del Noce in saggi fondamentali per la comprensione dell’ideologia italiana–tra il toscano e il piemontese cosa aveva a che fare col liberalismo? E davvero Prezzolini avrebbe condiviso l’entusiasmo per la rivoluzione bolscevica, per i consigli di fabbrica, per la novitas costituita dal pensiero e dall’azione di Antonio Gramsci? E “last but not least”, come si poteva pensare che Gobetti discendesse dalle costole di Tocqueville quando la cultura neo-idealistica italiana rimproverava—a ragione o a torto–all’aristocratico normanno proprio un culto delle ‘forme’ ignaro dello Spirito che è vita che si rinnova perennemente e che supera ogni volta i suoi prodotti per proiettarsi in una dimensione sempre più elevata?
Il fatto che Montanelli potesse riconoscersi incondizionatamente nelle parole di Prezzolini, in verità, dovrebbe farci riflettere su un aspetto della ‘political culture’ italiana sin qui ignorato: a intorbidare concettualmente le acque del liberalismo non furono solo gli azionisti, i postcomunisti, i radicali pannelliani, gli indipendenti di sinistra—come ha giustamente fatto rilevare una storiografia ormai abbastanza nutrita che va da Domenico Settembrini a Giuseppe Bedeschi, da Ernesto Galli della Loggia a Eugenio Di Rienzo, per limitarci a questi. Un sostanziale contributo all’oscuramento della nozione, l’hanno dato, a destra, anche i liberalconservatori, i liberalqualunquisti., gli spiriti ‘indipendenti’ e i presunti cantachiaro.
“Anch’io, caro Passalacqua—concludeva Montanelli—se il liberalismo italiano fosse quello di Gobetti, non esiterei a prenderne la tessera e a battermi per esso con le poche forze che mi restano. Il Prezzolini che in me—toscano come lui—sonnecchia me lo impedisce. Ma non m’impedisce di sentirmi all’unisono coi liberali che di Gobetti fanno il loro modello e punto di riferimento perché il liberalismo è Gobetti, anche se è proprio questo che lo rende così estraneo agl’italiani e all’Italia”.
“ Il liberalismo è Gobetti !” Montanelli dixit. Ma quali ragioni venivano addotte a sostegno di un giudizio così sicuro e perentorio? La proposta di una santa alleanza della borghesia dinamica con le avanguardie rivoluzionarie del proletariato? La crociata illuministica contro l’Italia cattolica, provinciale e controriformista? L’analisi del fascismo come autobiografia della nazione? Il giudizio sulla rivoluzione russa come momento liberale sotto false spoglie marxiste? L’insuperabile insofferenza del riformismo socialdemocratico che portava a definire Filippo Turati “il più formidabile diseducatore dell’Italia moderna”?
Prevedo le obiezioni di “chi la sa lunga”, di chi non si arresta alle manifestazioni ‘contingenti’ del pensiero ma bada al ‘sodo’, alla ‘prassi’, al fuoco interiore che muove i martiri e gli eroi della politica. Sennonché è proprio questo ammiccante invito a non “prendere troppo sul serio le parole” che rivela un anti intellettualismo tenace, che continua a considerare ‘astrazione’ e perdita di tempo ogni discorso sul mercato e sul dirigismo, sulla divisione dei poteri e sul federalismo, sulle diverse generazioni di diritti e sulle loro compatibilità A ben vedere, c’è in filo rossonero che collega fascismo e antifascismo azionista, Gobetti e Gentile, postcomunisti e “liberali di sinistra”, cattolici tradizionalisti e populisti dipietrini e si compendia nell’idea che, da una parte, ci sono gli uomini di buona volontà, i lavoratori indefessi, le persone perbene, disposte a fare qualcosa per gli altri e, dall’altra, i furbi, gli scansafatiche, gli yes men, che conoscono fin troppo bene l’’arte di arrangiarsi’. Montanelli, che pure attorno al ‘Giornale’ aveva saputo raccogliere il fior fiore del liberalismo non gobettiano, da Rosario Romeo a Renzo De Felice, da Nicola Matteucci a Peppino Are, non era in grado di spezzare quel filo, specialmente dopo la sua (comprensibile) adesione al fronte antiberlusconiano. Fargliene una colpa non ha senso ma forse è venuto il momento di sottoporre anche lui a un sano e onesto ‘revisionismo storiografico’.