Fossi un “libertarian” citerei Assange per falso ideologico
16 Dicembre 2010
A fine novembre Forbes ha pubblicato un intervistone dove il “mitico” Julian Assange dice che l’operazione WikiLeaks gliel’ha ispirata la cultura libertarian americana. I “Mi piace” su Facebook sono spuntati come i funghi, su tutti regnando il rilancio entusiastico che ne ha fatto la rivista Reason, mensile diretto in Sepulveda Boulevard a San Francisco da Matt Welch. Si dà però il caso, chiunque ne conviene, che il mondo libertarian sia tutto tranne che una legione compatta: ovvero che esistano correnti e obbedienze spesso tra loro più litigiose di quanto lo sia un libertarian medio con i conservatori a destra e con i liberal a sinistra.
Un conto è infatti il libertarianism di Reason, un conto quello di, che so, il Ludwig von Mises Institute di Auburn, Alabama, o degli oggettivisti nostalgici di Ayn Rand (1905-1982). Le sovrapposizioni sono mille e significative, certo, ma non meno significativa è la centralità del rule of law che i seguaci per esempio di un Murray N. Rothbard (1926-1995) pongono a principio di ogni ragionamento tanto da divenire seri e fieri partigiani del diritto naturale, persino su questioni scottanti e poco “libertarie” quali aborto ed eutanasia. E anche per i randiani il natural law (qualunque sia la formulazione che ne danno) è sempre centrale e ineliminabile.
I mondi alla Reason sono invece quelli che Oltreoceano vengono chiamati left-libertarian (“libertari” nuovi rispetto alla tradizione individualista statunitense antica quanto il personalismo della Vecchia Europa), un concetto che là è equipollente a quello di “radicali relativisti” da noi, motivo per cui gli avversari di destra del loro progressismo (per esempio su questioni spinose quali aborto ed eutanasia) si autodefiniscono “paleo-libertarian”. E sovente finiscono in combutta, almeno su alcuni punti (e se obtorto collo o no è, da un certo punto di vista, per esempio quello adottato in questa sede, poco rilevante), con i conservatori detti “sociali”.
I left-libertarian sono infatti mediamente tipi che gridano “libertà” solo per assolvere il proprio sfascismo, gente che tiene a nulla o a ben poco, personaggi pure un po’ tristi, se non persino disperati. All’Assange, appunto. Che la sua operazione senza né capo né coda, senza contesto ma pure spesso senza testo, sia molto triste e anche un poco disperata è cosa infatti piuttosto evidente. Pare rispondere più al desiderio di tutto travolgere che a una strategia mirata, ancorché questi o quelli vogliano e riescano a mettervi, a posteriori, il cappello sopra. Una forma d’illusione di potenza, la sua, che sogna di scompaginare ogni scenario esistente per puro gusto prometeico di farlo, ma che a conti fatti è sempre e solo una montagna che partorisce topolini.
Un forma di populismo, il suo, che grida “empower the people” solo come lo faceva Napoleone in La fattoria degli animali di Gorge Orwell (1903-1950). Una conseguenza mediatica, la sua operazione, del relativismo che oggi impera, più che una sua causa. Uno strumento per denigrare e se possibile distruggere l’esistente solo e proprio perché esiste, più che l’idea di elaborare un esistente alternativo (futuribile o utopico che sia, ma quanto meno prospettato), che ricorda d’appresso il metodo della pamphlettistica illuministica di un tempo: la quale non fu il veicolo di un nuovo sistema filosofico organizzato e organico che si scagliava contro i vecchi, ma l’idea di sgretolare, annacquare e scipire il mondo in quanto tale. Cupio dissolvi, e poco altro.
La tristezza e la disperazione del relativismo mediatico d’impronta neoilluministica di Assange non escludono peraltro imbeccate e spinte di ben altro tipo. Continua a essere un mistero il modo in cui certi file siano arrivati ad Assange e soci, come mai nessuno stia davvero pagando e come sia possibile che quell’esercito di esperti informatici del governo americano che in altre occasioni ha offerto coperture eccellenti e ben maggiori si sia lasciato buggerare da un manipolo di hacker.
Né è impossibile intravedere un utilizzo del “caso WikiLeaks” da parte almeno di una parte dell’entourage del presidente Barack Hussein Obama in quella perfetta funzione “postamericana” che si addice al personaggio.
Per capirci: oggi nell’esecutivo degli Stati Uniti regna la Sinistra, ma divisa in due scuole. Una è quella “postamericana”, l’altra quella dell’“americanismo progressista”. La prima è incarnata appunto da Obama, la seconda dal Segretario di Stato Hillary Clinton. Il trionfo ottenuto da Obama alle primarie Democratiche del 2008 aveva portato al successo il “postamericanismo”, ma evidentemente il gioco di squadra dentro il partito (lo stesso che comunque a un certo punto delle primarie aveva scelto positivamente di abbandonare la Clinton) ha poi imposto una road map verso il “postamericanismo” che fosse più graduale, al limite pure un tantino morbida, e questo per risultare più efficace, per radicarsi, per attecchire senza troppi scossoni, reazioni, inciampi.
Fu forse per questo che Obama fu “costretto” a ricuperare la Clinton da morte politica certa, e con lei anche quella idea dell’“interesse nazionale” pur giocata a sinistra che non e meno tale per il solo fatto di non essere di destra. E che comunque contraddice il “postamericanismo”. Ebbene, forse poi qualcosa è andato storto, forse l’accordo si è incrinato, forse qualcuno è uscito dai ranghi. Chi-lo-sa… Fatto sta che gli analisti più acuti, ma anche le persone normali, non possono non vedere come da WikiLeaks esca prona la linea della Segretaria di Stato americana, cosa che oggettivamente appunto aiuta la prospettiva postamericana obamiana.
Ecco: perché ciò accada ora non è assolutamente chiaro. Troppo tardi per piangere sul latte versato, ma anche troppo presto per le elezioni presidenziali del 2012. Comunque vada, infatti, il Partito Democratico non potrà allora che presentare Obama alla Casa Bianca, anche se egli dovesse essere a quel punto enormemente impopolare, inviso e perdente. Cambiare candidato in quel momento significherebbe raccogliere infatti i voti solo della mamma e della zia. Restiamo allora a guardare (probabilmente con WikiLeaks non si può fare altro) e vedremo se le cose si faranno un poco più comprensibili. Il bello di tutto è che gl’imprevisti succedono sempre, ovvero che anche il “complotto” più raffinatamente ordito poi salta per aria per qualche dettaglio imponderabile. Per questo, a conti fatti, i complotti, soprattutto quelli macro e globali, non esistono.
Torniamo allora ad Assange e alla cultura libertarian: essa non è mai stata il disfattismo, ma il difendere la prerogativa prima dell’essere umano, quella da cui dipende il resto. Negli Stati Uniti c’è una boutade che rende l’idea: “Freedom is not free”, glossata dall’altra: “There is no free lunch”. La libertà ha una vestale suprema, e si chiama responsabilità. Fossi libertarian citerei Assange per appropriazione indebita e falso ideologico.
Del resto: è un caso che tra i documenti riversati sul web come monnezza da WikiLeaks spunti pure una lista dei “cattivi” irta di nomi eccellenti della Destra conservatrice americana, quella che bordeggia volentieri, talora mescolandovisi, il mondo libertarian, in difesa strenua della “libertà ordinata”? Cioè della vera nemica di quella tirannia che Assange e soci dicono di voler combattere, ma che invece alimentano in versione digitale? Perché che nell’era Assange il mondo delle persone normali sia più schiavo di prima della bolgia infernale dei “secondo me” è innegabile. Ovvio allora che i “nemici” divengano la “pasionaria” dei “Tea Party” Sarah Palin e l’ex senatore cattolico della Pennsylvania Rick Santorum (che sta tornando alla grande e che potrebbe persino decidere di correre per la Casa Bianca tra due anni), il guru di Fox News Bill O’Reilly o il sagace Jonah Goldberg (un tipetto che scrive e documenta che tra nazisti e talebani del progressismo c’è poca differenza), un Mick Huckabee oppure Jeffrey T. Kuhner (firma di The Washington Times e leader dell’Edmund Burke Institute for American Renewal di Washington), più un pugno bipartisan di membri del Congresso e di strateghi della sicurezza nazionale (magari pure di sinistra, ma certamente non “postamericani”). La loro colpa? Chiamare le cose con il nome che hanno, ossia “tradimento” la volgare demagogia di chi abbaia contro tutti tranne uno, di chi promette il rovesciamento di ogni despota solo per instaurarne uno nuovo. Rileggiamoci Giulio Cesare di William Shakespeare (1564-1616).
La Prima cyber-guerra mondiale è stata dichiarata. Si combatte tra un New Model Army relativista che venderebbe pure la propria mamma solo per il gusto di farlo e un Tercio che pensa che alcune cose siano totalmente non negoziabili.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]