Francesco, la proprietà privata e la Teologia della Liberazione che non piace a Ratzinger (ma piace alle élite mondialiste)
02 Dicembre 2020
di Vito de Luca
Dopo le ultime affermazioni di papa Francesco, in cui afferma, rivolto ai giudici di Africa e America Latina che si occupano di diritti sociali, che il diritto alla proprietà privata non è intoccabile – in quanto diritto secondario – appare difficile allontanare dal pontefice l’aura di esponente della Teologia della Liberazione. Un po’ di storia, tanto per intenderci meglio, su questo filone dottrinario, in quanto nulla viene dal nulla.
Le radici di questo nuovo spirito affondano sin dai tempi del Concilio Vaticano II (1962-65), quando si affermò la possibilità di una «creatività teologica», sulla scia del principio secondo cui «La Gaudium et spes dovrà essere incarnata in ogni contesto». Insomma, a ciascuno il suo, nel nuovo solco del relativismo della Chiesa più assoluto, tracciato dalla Roma d’Oltretevere. Al Concilio, poi, come se non bastasse, seguì la “Populorum Progressio” di Paolo VI, nel 1967, e poi una serie di incontri, tra i quali il più rilevante fu quello di Medellín, nell’agosto del 1968, sul tema “La chiesa nell’attuale trasformazione dell’America Latina alla luce del Concilio”. Un appuntamento paragonabile, per l’America latina, a quello che per l’Occidente fu il Concilio Vaticano II.
Detto diversamente, il mondo della “Gaudium et spes” del Vaticano, in Colombia diventa il mondo dei poveri e degli oppressi. È questo l’humus culturale in cui si mosse anche l’attuale papa, Francesco. Insomma, per i latinoamericani della Chiesa il popolo vive nello sfruttamento, nell’emarginazione, nella miseria, nella dipendenza interna ed esterna e la distanza tra ricchi e poveri è sempre più insultante ed anticristiana. Per questo, anche il recente invito di Francesco a relegare la proprietà privata ad una valenza prevalentemente pubblica, è un richiamo ad un nuovo rapporto tra fede e giustizia e ad una rinnovata scelta preferenziale della Chiesa in favore dei poveri, così come fece Gesù nella sua vita terrena, per capirci.
Per la Teologia della Liberazione, e per papa Francesco, vi sarebbe, ieri e oggi, un nuovo tipo di colonialismo, secondo un’analisi sudamericana che non è parte del mondo accademico, ma è espressione di un movimento ecclesiale e politico della base, la quale conta e fa affidamento sull’adesione di migliaia di religiosi, sacerdoti e laici. Anche qui, ieri ed oggi. Da questo terreno ha infatti preso le mosse il giovane Bergoglio, ora papa Francesco.
Anche per Francesco storicamente nel mirino andrebbe messo il “desarrolismo”, lo sviluppismo assai in voga negli anni Sessanta, un punto di vista in cui si partiva dal presupposto che la causa principale dei disagi dell’America latina fosse il sottosviluppo, ossia la generale arretratezza economica del Sud-America. Anche per questo, ricordiamolo, nel 1961 il presidente statunitense, il democratico Kennedy, diede vita all’Alleanza per il progresso, con una serie di forniture all’America latina che arrivò ad un totale di 20 miliardi di dollari.
Da qui, dopo alcuni passaggi concettuali piuttosto contorti, in questo filone culturale si aprì un pensiero latinoamericano che sosteneva che in realtà lo sviluppismo altro non fosse che uno sviluppo del sottosviluppo. Dunque l’Occidente, come fecero gli Usa di Kennedy, in realtà con quel piano di aiuti non celava altro – secondo i “liberazionisti” teologi – che una sola volontà: quella di continuare ad alimentare l’arretratezza del Sud-America.
Tralasciando alcuni intermezzi dottrinali, poi fece irruzione in queste menti quella dipendenza intesa al modo di Marx (lo sfruttamento per creare plusvalore nel capitalismo); e, inoltre, la rivoluzione, sempre in salsa marxiana.
Da questo tipo di impostazione sociologica, politica e filosofica, sorgono due importanti riflessioni, delle quali Guttiérez ed Assmann sono certamente gli esponenti più autorevoli. Il punto di svolta, tuttavia, per comprendere meglio il nocciolo di questa adozione ideologica, va però ricondotto a quella “Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione” emanata dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui il prefetto era tale cardinale Joseph Ratzinger: sì, il futuro papa Benedetto XVI, predecessore di Francesco, e attuale papa emerito.
In questa “Istruzione”, del 6 agosto 1983, si accusa la Teologia della Liberazione di «assunzione non critica di elementi della ideologia marxista». Così pensava Ratzinger, così scriveva Ratzinger. Per Ratzinger, i concetti espressi dalla Teologia della Liberazione, quelli che oggi espressamente reitera Francesco, producono risultati che si discostano «gravemente» dalla fede della Chiesa. Infatti, sostiene il documento, la natura «totalizzante» del marxismo finirebbe per imporre la sua logica ferrea a tutti i simpatizzanti di esso, trascinando parecchi teologi della Liberazione «ad accettare un insieme di posizioni incompatibili con la visione cristiana dell’uomo», come, per esempio, il concetto di Iglesia popular, o Chiesa di classe, alternativa alla Chiesa gerarchica ufficiale.
E Francesco, come scriveva Clodovis Boff, a proposito della Teologia della Liberazione, ha rimesso proprio i poveri al centro della riflessione teologica e dottrinaria. E chi sono i poveri, nel pensiero di Francesco? I poveri, per il papa attuale, sono il “non uomo”, chi non è riconosciuto come uomo da parte dell’ordine sociale imperante, lo sfruttato, colui che è sistematicamente e legalmente spogliato del suo essere uomo, colui che a malapena sa che cosa sia un uomo, gli ultimi della terra, “della fine del mondo”, da dove Francesco proviene, stando alle sue parole quando salì al soglio di Roma. E il “non uomo”, si faccia attenzione a questo snodo dottrinale, mette in questione, prima di tutto, non tanto il nostro mondo religioso, quanto il nostro mondo economico, sociale, politico, culturale. Ed ecco perché l’anno scorso, ancora una volta Ratzinger rimise al centro, in un suo intervento, la parola “Dio”, secondo lui ormai scomparsa dal vocabolario religioso.
Sì, poiché per la teologia della Liberazione la domanda non verte tanto sul come parlare di Dio in un mondo adulto, ma piuttosto sul come annunciarlo Padre in un mondo non umano, sulle implicazioni che comporta il dire al non uomo che è figlio di Dio (su questo, si legga Prassi di Liberazione, teologia e annuncio, in “Concilium”, 1974).
Francesco, da dentro, sta evidentemente cercando di concretizzare ciò che nella Teologia della Liberazione era solo teoria, traducendola, come nella dialettica marxiana, in prassi; pertanto non sorprende la sua sortita di considerare la proprietà privata solo come un diritto da impiegare sotto una visione sociale. In questa direzione vanno anche le ultime nomine dei cardinali, in una Chiesa sempre più aperta alle periferie del mondo, la quale dovrà assicurare un successore all’attuale papa a sua immagine e somiglianza.
La gravità è che oggi oggettivamente i fondamenti della Teologia della Liberazione in Occidente trovano terreno fertile nel progressismo culturale dominante e quindi non solo teologico: una simbiosi che appare vincente a livello globale, in cui la Teologia della Speranza, la Teologia Politica e quella della Rivoluzione, unite al mainstream sanitario e tecnico-scientifico, forniscono un catalizzatore all’affermazione incontenibile del mondialismo, veicolato ipocritamente dall’opposto delle classi degli ultimi: le élites economiche e finanziarie della Terra.