François Furet e il fallimento dell’utopia rivoluzionaria

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François Furet e il fallimento dell’utopia rivoluzionaria

14 Luglio 2007

Che François Furet, scrivendo quel che ha scritto sulla Rivoluzione
Francese e sul comunismo, abbia suscitato controversie e polemiche feroci
ancora negli ultimi decenni del secolo scorso, è un segno inequivocabile di
quanto potente e resistente sia stata l’utopia rivoluzionaria. A quasi due
secoli dal 1789, infatti, si sarebbe potuto presumere che quelle tesi fossero
già da tempo diventate senso comune. E invece non lo erano diventate affatto:
perché per riuscire a capirla davvero, la rivoluzione, la coscienza occidentale
ha dovuto aspettare che fallisse. E insieme alla coscienza occidentale ha
dovuto aspettare anche Furet, che, comunista dal 1947 al 1956, all’idea
rivoluzionaria fu tutt’altro che insensibile.

L’età contemporanea la si può affrontare da tanti lati, e definire in
tanti modi: i fenomeni di globalizzazione, il predominio dell’Occidente, i
processi di trasformazione economica. Personalmente resto convinto che sia
proprio la comparsa dell’utopia rivoluzionaria – ovvero della convinzione che
il mondo possa essere rifatto da cima a fondo sulla base di un progetto
razionale, così da edificare il paradiso in terra – a rappresentarne il vero
carattere fondante. Se così è, se la contemporaneità coincide con la
rivoluzione, allora François Furet è stato uno di quelli che meglio ne hanno
colto il carattere e scritto la storia.

Costruita in un dialogo serrato con Alexis de Tocqueville e Augustin
Cochin, l’interpretazione furettiana del 1789 è stata doppiamente antimarxista.
In primo luogo perché del marxismo lo storico francese, seguendo l’autore della
Democrazia in America, ha rigettato le dicotomie fondanti, sostituendole
con una dicotomia differente – e liberale. La Rivoluzione ha smesso così di
essere un fenomeno di classe e al contempo il segno di una discontinuità
profonda, l’evento che marca il passaggio traumatico dalla società
aristocratica alla società borghese, prefigurando il passaggio ulteriore verso
la dittatura del proletariato. Ed è stata invece collocata su un terreno del
tutto diverso dal marxista, quello dei rapporti fra Stato e individuo, sul
quale con un’acrobazia solo in apparenza paradossale è diventata un momento
importante di continuità, e non di rottura, con l’Antico Regime: il momento
culminante di un processo di atomizzazione che già l’assolutismo aveva
cominciato, e che distruggendo ogni struttura sociale intermedia ha lasciato
l’individuo nudo e solo di fronte allo Stato. Un passaggio, insomma, di un
lungo e profondo processo di democratizzazione che ha interessato i rapporti
fra potere pubblico e cittadini ben più di quelli fra le classi sociali. E che
Tocqueville riteneva massimamente pericoloso per la libertà.

Metodologicamente antimarxista, poi, Furet lo è stato perché, seguendo in
questo caso Augustin Cochin, ha dato credito alla dimensione politica e
ideologica della rivoluzione: la “sovrastruttura”, insomma, non soltanto resasi
autonoma dalla “struttura”, ma diventata ben più importante di essa. La
Rivoluzione si presenta così soprattutto come invenzione di un discorso politico
nuovo, creazione di visioni del mondo e palingenesi sognate: discorsi, visioni
e sogni che non sono certo del tutto distaccati dal mondo degli interessi
concreti, ma che rispetto a esso rimangono tuttavia largamente indipendenti.

La “riscoperta” del politico, della sua specificità e autonomia, cui
Furet ha dato un contributo certamente fondamentale ma alla quale hanno
collaborato in molti nell’ultimo trentennio del Ventesimo secolo, ha avuto
conseguenze tanto intellettuali quanto politiche che sarebbe difficile
sopravvalutare. Nel mondo della riflessione ha trasformato profondamente la
percezione di un’infinità di fenomeni storici – dalla rivoluzione francese,
appunto, al Cartismo inglese; dalla Grande Guerra al fascismo –, risvegliando
l’attenzione degli studiosi per aspetti di quei fenomeni ch’erano sempre stati
sotto il loro naso, ma che essi non erano mai riusciti a vedere. Ha fatto
giustizia di tante valutazioni ideologiche e sommarie, di tante spiegazioni che
erano state date prima ancora che si cominciasse a ricercare.

Da un punto di vista politico, il rifiuto del rapporto necessario fra
“struttura” economica e “sovrastruttura” istituzionale e ideologica rappresenta
nientemeno che la negazione del marxismo in quanto progetto di trasformazione
integrale dell’esistente. Se i rivoluzionari non sono i rappresentanti di
alcuna “necessità” storica, se non sono l’avanguardia di nessuna “classe
generale”, allora la loro azione – e la loro violenza – perdono qualsiasi
ancoraggio a una legittimazione superiore, per diventare strumentali unicamente
alla loro brutale volontà di potenza. Il concetto marxiano di falsa coscienza
si rivolta contro Marx: tutte le coscienze sono arbitrarie, ivi inclusa quella
dei rivoluzionari.

Si capisce come, distaccatosi tanto radicalmente da una visione comunista
del mondo, all’indomani della caduta del Muro Furet, col suo Passato di
un’illusione
, abbia voluto rivolgere la propria attenzione al totalitarismo
sovietico. Soffermandosi così, dopo aver studiato come nel 1789 entrò nel mondo
il sogno della palingenesi, sul rilancio in grande stile di quel sogno che
avvenne con la prima guerra mondiale e il 1917. Non per caso, considerato come
aveva concettualizzato in precedenza la passione rivoluzionaria, del comunismo
– ma anche del fascismo e nazismo – lo storico francese sottolineò con forza la
deriva nichilistica: il fallimento di un’ideologia che sperava di avere un
rapporto solido con la materia e con la storia, ma non lo aveva affatto, e finì
per legittimare gli appetiti di una “nuova classe” di professionisti
dell’utopia.

Scrivendo dopo il 1989, François Furet parlava di un mondo che era ormai
finito, ma che lasciava dietro di sé un cumulo smisurato, e pestilenziale, di
rifiuti intellettuali. A dieci anni dalla sua scomparsa è ancora più evidente
quale contributo egli abbia dato alla rimozione di quelle macerie.