Frattini scommette sull’Italia nel triangolo fra Israele, Siria e Turchia
22 Novembre 2010
Che vuol dire esattamente il ministro Frattini quando rivolgendosi al premier Netanyahu annuncia che l’Italia è diponibile a favorire "un possibile riavvicinamento fra Israele e Turchia"? La prima spiegazione è anche la più facile. I rapporti fra Gerusalemme ed Ankara si sono guastati dopo l’aggressione verbale di Erdogan a Peres e il sanguinoso episodio della Freedom Flottilla. Frattini, che ieri spiegava come l’Italia si senta "particolarmente vicina" alla Turchia, vuol interpretare il ruolo del tessitore, esortandola "a riprendere quella mediazione nei negoziati indiretti fra Israele e Siria". Peccato che dallo scorso ottobre lo stato ebraico sia rientrato nella lista dei Paesi che Ankara considera una "minaccia".
La seconda spiegazione è legata al vertice NATO di Lisbona della scorsa settimana. Un punto decisivo del "nuovo concetto strategico" approvato dall’Alleanza Atlantica è l’accordo sullo Scudo antimissile, che non difenderà solo gli Usa e l’Europa ma anche Israele da un eventuale attacco a medio e corto raggio proveniente dall’Iran. Manco a dirlo, la Turchia si è messa di traverso ostacolando i piani dei (suoi) Alleati pur di preservare la propria relazione con Teheran. Anche in questo caso, sembra che siano stati i buoni uffici delle cancellerie europee a rassicurare Erdogan sul fatto che tra gli obiettivi dello Scudo non sarebbero stati menzionati espressamente né l’Iran né la Siria, come invece avevano chiesto Washington e Parigi. Sabato scorso la diplomazia italiana ha espresso "soddisfazione" per questa decisione, che ha spinto i turchi ad approvare l’accordo.
La terza spiegazione è meno evidente ma serpeggia nelle pieghe e nei risvolti della nostra attività diplomatica in Medio Oriente. Il gancio fondamentale per non tagliare del tutto ogni relazione fra Israele e l’Iran passa da Damasco. Fino adesso a parlare con il presidente Assad ci hanno pensato i turchi, ora che Erdogan non c’è più si aprono nuove finestre di opportunità per quei Paesi che avessero il fiuto e la tempestività di coglierle. L’Italia potrebbe essere questo mallevadore? Ieri Netanyahu ha riconosciuto al nostro Paese di aver svolto una mediazione utile nel convincere Israele a ritirarsi, almeno parzialmente, dal villaggio di Ghajar. Un luogo abitato da qualche migliaio di anime, al confine con Siria e Libano, fondamentale in quel delicatissimo negoziato che porterebbe a un ritiro ebraico dalle Alture del Golan, occupate dopo la Guerra del 1967 ed annesse nei primi anni Ottanta senza un riconoscimento da parte della comunità internazionale (sai che sorpresa).
Netanyahu probabilmente sta valutando se non sia più facile risolvere questo contenzioso che l’incancrenita questione palestinese. Potrebbe chiedere ai caschi blu delle Nazioni Unite di prendere il controllo di Ghajar. Non subito, ma ci pensa. Per trattare con Damasco però ha bisogno di un partner affidabile. L’Italia è "il miglior amico di Israele", come ebbe a dire il premier Berlusconi nel suo discorso alla Knesset del 3 febbraio scorso, ma per chi non lo sapesse l’Italia è anche la migliore amica della Siria in Europa. Lo scorso marzo il Presidente Napolitano è stato in visita per quattro giorni nella repubblica araba, rafforzando i nostri legami di cooperazione e chiedendo a Gerusalemme di lasciare il Golan. Nell’ottica del Processo di Barcellona e del Dialogo euromediterraneo, in passato Roma e Damasco hanno stretto un importante accordo sulla protezione degli investimenti, con l’idea di favorire e incrementare il più possibile la presenza dei nostri investitori in Siria. I nostri agenti segreti sono di casa a Damasco, come a Tripoli e Teheran.
Tutto questo ci porta a una riflessione conclusiva sul nostro ruolo di "piccola potenza" nel grande gioco mediorientale. "L’Italia ha un buon rapporto con i Paesi arabi," spiega all’Occidentale Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Esteri della Camera e consulente del ministero nei rapporti con Israele, "Frattini ne ha visitati alcuni di recente e nei prossimi giorni sarà in Egitto. Sarebbe logico se Israele chiedesse all’Italia di aiutarlo a coltivare dei rapporti con gli altri Paesi dell’area".
L’Italia della Prima Repubblica aveva sicuramente un rapporto privilegiato con il mondo arabo. L’equivalenza, non sempre imparziale, fra arabi e israeliani fu il tratto distintivo dell’andreottismo nei decenni scorsi, quando gli italiani, ben prima di Obama, pensavano di poter ricondurre alla ragione qualsiasi estremismo islamico, con un occhio ai propri interessi economici (siamo un Paese povero di fonti energetiche). Una strada non priva di contraddizioni. Con la politica estera berlusconiana quel "multilateralismo soft" si è orientato preferibilmente verso gli amici israeliani, nel quadro di un cambiamento complessivo e polarizzante come quello avvenuto dopo l’11/9 e la Guerra di Gaza (Frattini sarà nella Striscia ma non incontrerà Hamas). Netanyahu, insomma, può fidarsi dell’Italia, un alleato in grado di accreditare lo stato ebraico davanti alla comunità internazionale nell’ipotesi di un ritiro di Gerusalemme.
Ricordiamoci soltanto chi abbiamo davanti. La Siria era uno "stato canaglia", se valgono ancora qualcosa le definizioni dell’era Bush. Un Paese che resta nella lista degli sponsor del terrorismo compilata dal Dipartimento di Stato Usa. Insieme all’Iran, è il principale finanziatore e sostenitore dell’Hezbollah, il "Partito di Dio" che vuole imporre la legge islamica in Libano. Damasco è stata accusata di aver tirato le fila dell’assassinio del premier libanese Rafik Hariri. Dal 1963, quando andarono al potere i militari alawiti della famiglia Assad, in Siria si vive dentro un perenne stato di emergenza, la libertà di espressione è un sogno, chi non si adegua diventa prigioniero politico. Il partito politico al potere, il Baath, evoca altre dittature che per fortuna in Mesopotamia sono state rovesciate.
Sappiamo bene che la diplomazia è anche l’arte del realismo politico e che la stoffa del buon diplomatico si misura dal genere di accordi chiusi con l’avversario più ostico. Attenzione soltanto a non esagerare, a non esporsi troppo, perché Israele col tempo ha capito che ogni volta in cui si ritira dai territori conquistati, subito dopo si espone al rischio di una ritorsione. E quando reagisce, viene puntualmente condannata dalla comunità internazionale. Forse anche Netanyahu potrebbe pensarci un momento prima di lanciarsi in un referendum sul ritiro dal Golan.