Frigo, l’uomo del “giusto processo” al giusto posto

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Frigo, l’uomo del “giusto processo” al giusto posto

21 Ottobre 2008

I grandi principi giuridici, come tutti gli ideali, alla fine camminano sempre con le gambe di pochi uomini. Giuseppe Frigo, 75 anni da poco compiuti, è uno di questi. La sua candidatura a giudice della Corte Costituzionale può far riannodare il dialogo bipartisan tra centro destra e centro sinistra sulla giustizia che aveva portato, nel novembre del 1999 , all’approvazione della legge costituzionale sul  “giusto processo”.

All’epoca Frigo era “solo” il presidente dell’Unione delle camere penali italiane e il suo segretario, Domenico Battista, fratello del giornalista Pierluigi, ancora oggi ricorda quei giorni di battaglie e di astensioni dalle udienze.

“Quando Frigo fu presidente dell’Ucpi dal 1998 al 2002 – dice oggi Battista – si posero le basi per l’approvazione dell’articolo 111 della Costituzione riscritto nel senso del giusto processo… all’epoca la giustizia versava in un situazione analoga a quella di oggi e la riforma accusatoria del 1989 era stata vanificata da una serie di leggi emergenziali e da alcuni “ritocchi” operati dalla Corte Costituzionale su istanza della magistratura inquirente… ma quel che è peggio è che si trattava di impiantare il concetto di parità tra accusa e difesa in una Costituzione che quando era stata varata era ancora tarata sulla procedura penale del codice Rocco”. Il tutto contro la volontà di casta della maggior parte dei magistrati che volevano mantenere le cose così come erano.

Ma Frigo non si limitò a perorare la causa dell’approvazione di questa nuova versione dell’articolo 111 della Costituzione, “che in Parlamento ebbe un consenso bipartisan di quasi il 98% dei deputati e dei senatori che la licenziarono alla fine della doppia lettura prevista nel novembre del 1999” (durante il governo D’Alema, ndr). No, Frigo solo pochi mesi dopo fu l’avvocato più convincente nel difendere davanti alla Consulta le ragioni della riforma appena varata dagli assalti della procura di Milano e di altre che si aggregarono nel sollevare eccezioni di costituzionalità. E anche quella battaglia fu vinta.

I momenti più duri però furono senz’altro quelli che precedettero l’approvazione della stessa riforma.

Ad esempio l’anno prima, il 18 novembre 1998, Frigo fu costretto a scendere in campo nientemeno che contro l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che aveva definito “eversive” le astensioni dalle udienze degli avvocati che in quei mesi furono tante e lunghe. Tutte propedeutiche a che il Parlamento rimettesse mano al codice di procedura penale in senso garantista.

Scalfaro più precisamente aveva sostenuto che “aggredire le istituzioni è un comportamento eversivo”, ma Frigo aveva prontamente ribattuto che “il diritto di critica e quello di sciopero” non possono rientrare nella “categoria dello spirito dell’aggressione”.

Il mondo politico dell’epoca si spaccò in due, con la sinistra come al solito a fare da reggicoda ai pm e al capo di stato che li proteggeva fin dall’epoca dell’avviso di garanzia a Berlusconi durante il G7 di Napoli nel novembre 1994.

Scalfaro dovette poi fare marcia indietro precisando che aveva criticato gli avvocati soprattutto perché avevano inteso indirizzare la loro astensione contro la Corte Costituzionale che aveva praticamente azzerato il processo accusatorio.

In effetti il detonatore dello sciopero guidato da Frigo fu una sentenza sul vecchio articolo 513 del codice di procedura penale con la quale la Consulta aveva in pratica ammesso che le deposizioni dei pentiti potessero anche non essere riconfermate nel processo dando semplice lettura degli atti.

Non solo, la Consulta non ebbe neanche nulla da eccepire contro quelle norme che di fatto limitavano l’accesso agli atti dell’inchiesta dei pm ai legali degli imputati. Fu una sconfitta dello stato di diritto, dice ancora oggi Frigo, ma da quel vulnus e da quelle giornate di lotta, che costarono agli avvocati penalisti italiani l’azzardato paragone con i terroristi da parte di Scalfaro, nacque la più ampia battaglia a favore del giusto processo in Costituzione.

Principio la cui introduzione, benchè sempre interpretata in maniera minimale anche dai magistrati dei giorni nostri, ha di fatto vanificato il tentativo di restaurazione del processo inquisitorio che le procure di tutta Italia avevano messo in essere con il pretesto di “tangentopoli”.

Oggi quel professore universitario bresciano di procedura penale comparata può andare a fare parte dello stesso organismo che dieci anni fa combattè con uno sciopero che duro quasi tre settimane.

Sono i corsi e i ricorsi della storia. E della vita.

Lui, Frigo, ha salutato la propria candidatura come un segnale che almeno nelle riforme che riguardano la giustizia, “la più urgente delle quali è la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti”, in Italia possa tornare lo spirito bipartisan che lo vide allora sulle barricate e ora forse sugli allori.