Fuga da Evin: l’orrore delle prigioni iraniane (la storia di Jamshid Amini)
10 Gennaio 2009
Guantanamo sta per chiudere. Ad annunciare il primo obbligato, e politicamente corretto, segno di discontinuità con l’amministrazione Bush della nuova era obamiana, è stato il segretario alla Difesa Robert Gates, che resterà al Pentagono anche con l’avvento del prossimo presidente. La prigione militare per i “nemici combattenti” del jihad islamico ha sollevato sin dall’inizio lo sdegno dei falsi profeti dei diritti umani e dei loro malcapitati seguaci. Quale luogo di infami torture e violazioni contro uomini indifesi, qualcuno direbbe “resistenti”, è mai Guantanamo?
Dal rapporto ONU del 2006, oltre ad alcune violazioni procedurali delle convenzioni vigenti e a comportamenti oltraggiosi ma episodici nei confronti dei detenuti (perseguiti dalle stesse autorità americane), non emerge un caso, uno, di atrocità commesse a danno dei prigionieri (vedi qui). Ma i ‘saggi’ delle Nazioni Unite non potevano deludere quanti speravano di trovare a Guantanamo una nuova Abu Graib. Nel rapporto si sono così scagliati contro le tecniche d’interrogatorio autorizzate dall’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld; tecniche non certo per signorine ma attagliate alla natura dei prigionieri come richiesto dalla circostanza: beni di conforto usati come incentivi per parlare; esposizione a temperature estreme; privazione della luce e stimolazione dell’udito; alterazione dell’ambiente attraverso il cambiamento della temperatura e la diffusione del cattivo odore; cambiamenti dei cicli di sonno dalla notte al giorno (ma non privando il sonno); isolamento dal gruppo. Particolare scandalo ha destato l’alimentazione forzata ai detenuti in sciopero della fame, sebbene non possa essere considerata una grave violazione dei dettami stabiliti a Ginevra per il trattamento dei prigionieri di guerra, né un terribile tormento per i presunti terroristi che volevano lasciarsi morire per addossare tutte le colpe al governo americano.
Alla fine, l’esito insindacabile dell’inchiesta è stato che Guantanamo deve chiudere perché vi si pratica la tortura e si violano sistematicamente i diritti umani. Gli organi d’informazione hanno poi offerto la loro cassa di risonanza a uso e consumo dell’opinione pubblica, montando un gigantesco caso mediatico che ha avuto la forza di condizionare il dibattito e le scelte politiche.
Finora, però, non hanno destato altrettanto clamore le nefandezze che si compiono quotidianamente e da decenni in ben altre prigioni, quelle sì veri e propri luoghi di tortura e barbarie d’ogni sorta. Il caso più eclatante è quello delle prigioni iraniane, dove il regime khomeinista riserva un trattamento a dir poco medioevale ai numerosi detenuti, politici e non, che vi sono rinchiusi. Eppure queste super carceri degli orrori restano semisconosciute, quando non completamente ignote all’opinione pubblica, mentre Guantanamo è sulla bocca di tutti. Nel segno del doppio standard che spesso anima l’Onu, gli operatori nel settore dei diritti umani e i mezzi di comunicazione.
Ma che succede nei penitenziari di Teheran e dintorni? Come e perché si finisce nelle loro celle d’isolamento? E quali tecniche di ‘interrogatorio’ vengono impiegate dai carcerieri della rivoluzione islamica? Ce lo racconta chi in questi luoghi spaventosi c’è stato davvero, al contrario di chi scrive (fortunatamente) e dei ‘saggi’ delle Nazioni Unite che hanno sentenziato su Guantanamo senza neppure averci mai messo piede.
Nelle galere iraniane, Jashmid Amini ha passato sette anni della sua vita. Viene arrestato il 22 febbraio del 1999, alle 7 del mattino: “Ero appena salito in macchina per andare al lavoro”, dice Jashmid, medico di professione e colonnello dell’esercito, “quando un gruppo di sconosciuti, senza un’uniforme o un distintivo che li identificasse, circonda l’autovettura, mi lega, mi incappuccia e mi sequestra. Nel frattempo, altri soggetti, senza uniforme ma armati, fanno irruzione in casa. Rinchiudono mia moglie e i miei due figli in una stanza, dove passeranno l’intera giornata terrorizzati e costantemente sotto minaccia, mentre la casa viene perquisita e messa a soqquadro. La stessa cosa è avvenuta nell’abitazione dei miei genitori a Mashad e dei miei suoceri a Isfehan”. Gli sconosciuti appartenevano alla Sahefaja, acronimo in farsi dell’Intelligence and Security Agency of the Armed Forces of the Islamic Republic of Iran: un’organizzazione alle dirette dipendenze della guida suprema, Ali Khamenei, che opera al di là della legge e ha la facoltà di compiere arresti ed emettere condanne senza regolare processo.
“Mi portano in un luogo sconosciuto; ho appreso solo successivamente che si trattava del famigerato carcere 336 della Sahefaja”. Ancora oggi in Iran sono in pochi a sapere dell’esistenza del carcere 336, perché sono solo in pochi a sopravvivere all’intensità delle torture psicofisiche perpetrate quotidianamente. Jamshid è tra questi: “Dopo quattro giorni formulano il capo d’accusa contro di me: spionaggio per conto della CIA e del governo degli Stati Uniti”. Un’accusa infondata con cui il regime ha voluto punire l’attività di oppositore di Jamshid. “Il mio impegno per la democrazia, la libertà e i diritti umani risale ai tempi dell’università quando sono cominciati i primi problemi con il regime. Per alcuni anni sono stato costretto a recarmi una volta a settimana all’ufficio intelligence dell’università per ottenere il via libera a proseguire gli studi. Dopo la laurea in medicina, vengo mandato nelle zone più pericolose della guerra con l’Iraq, dove resto per quattro anni”. Jamshid torna a casa e salvo, nonostante un’intossicazione polmonare dovuta ai gas e alle armi chimiche, e dopo essere rimasto ferito alle gambe in seguito a un bombardamento. Il regime tuttavia non gli permette di proseguire gli studi per la specializzazione a causa del suo passato da oppositore. Giunge allora il momento di lasciare l’Iran insieme alla famiglia, ma le cose non vanno bene: “Senza una specializzazione non sono riuscito a trovare lavoro all’estero, e dopo due anni, con mia moglie, una farmacista, e i miei due figli, decido di tornare in Iran”.
A Teheran Jamshid è in cerca di un impiego e riprende servizio nell’esercito come comandante medico in una caserma, dove lavora al mattino, mentre nel pomeriggio si dedica all’attività di medico di base presso il suo studio privato. Non abbandona però il suo impegno in opposizione al regime. “Dopo tante fatiche riusciamo a formare un gruppo interno all’esercito di orientamento laico e democratico. Raccoglievamo informazioni utili per far conoscere i crimini del regime agli iraniani. Distribuivamo volantini, organizzavamo incontri notturni e manifestazioni, anche in coordinamento con altri gruppi di opposizione. Il mio gruppo è attivo ancora oggi e continua a lavorare per occupare i posti chiave nell’esercito e in altre istituzioni allo scopo di liberare un giorno il popolo iraniano”.
Ma l’occhio vigile dei mullah non poteva lasciar fare, così Jashmid si è ritrovato all’improvviso nell’inferno del carcere 366. “I primi 18 giorni li ho passati nella cosiddetta sala parto, dove si trovano gli strumenti di tortura e si svolgono gli interrogatori. Avevo gli occhi bendati, ero legato mani e piedi a una sedia. La mia giornata iniziava con i pugni e i calci dei miei torturatori fino allo svenimento. Mi buttavano addosso acqua gelata e poi bollente per farmi risvegliare. Venivo frustato con cavi elettrici di 2-3 cm di diametro; ad ogni colpo avvertivo le lacerazioni della pelle e si riaprivano le ferite che mi erano già state inferte. Ho anche avuto varie fratture alle mani, ai piedi e alla mandibola causate da un bastone d’acciaio e dai calci”.
“Mi prendevano per i capelli e mi battevano la testa sul pavimento, così per gli ematomi che avevo sulla fronte erano costretti a cambiare ogni giorno il bendaggio con cui mi coprivano gli occhi. Per qualche giorno sono stato lasciato senza cibo e acqua; quando ho chiesto da bere mi hanno dato acqua con dei girini. Mi hanno costretto a mangiare cibo con scarafaggi, ma ho anche mangiato le loro feci e bevuto la loro urina. Il ricordo più umiliante è quando mi hanno spalmato la faccia di feci con una spazzola, e non hanno lasciato che mi pulissi perché le feci dovevano prima seccarsi; oltre all’odore, sul mio viso era terribile la sensazione di prurito. E non c’erano solo torture fisiche, mi torturavano anche psicologicamente: mi davano false notizie sulla mia famiglia, dicevano che mia figlia era scomparsa, che mia moglie aveva chiesto la separazione, che un incidente era capitato a mio figlio. Mi facevano sentire false grida e falsi pianti di mia figlia e di mia moglie, dicendomi che erano sotto tortura”.
Tutto ciò per costringere Jamshid a confessare di essere un cospiratore contro la rivoluzione islamica al soldo del Grande Satana. “Al diciottesimo giorno mi legano a un letto a testa in giù, ma mi lasciano una mano libera per scrivere sotto dettatura la mia falsa confessione. Uno di loro mi teneva la bocca chiusa con un panno, mentre un altro mi era salito sulla schiena con tutto il suo peso: sentivo di stare per morire”. Agli interrogatori nella sala parto partecipano persino il giudice che ha convalidato la falsa confessione e il pm a cui la confessione è stata poi inoltrata… proprio come a Guantanamo?
Dalla sala parto Jamshid viene rinchiuso in una cella d’isolamento di due metri per due. Ha ormai confessato le sue colpe secondo la volontà del regime; ciononostante, continua a essere picchiato. I suoi aguzzini lo prelevavano quasi ogni notte dalla cella per portarlo in luoghi dove poteva sentire rumori di mitragliatrice: “Mi dicevano che erano per me e che stavano per eseguire la mia condanna a morte”. Ma dopo 15 mesi nel carcere 336 della Sahefaja, Jamshid viene trasferito nel penitenziario iraniano più famigerato, quello di Evin, alla periferia nord di Teheran, luogo di continue impiccagioni ed efferatezze, nell’ala destinata ai prigionieri politici. Ad Evin gli giunge la sentenza di condanna a 13 anni di reclusione e al pagamento di 150 mila dollari per spionaggio per conto degli USA e della CIA, e per avere operato con gruppi eversivi. In più gli vengono comminate 110 frustate, di cui 80, subito eseguite, perché nel corso della perquisizione a casa sua era stata trovata una bottiglia di whisky. Le autorità sequestrano infine numerose proprietà della sua famiglia e le vendono come corresponsione per i 150 mila dollari.
Le condizioni di salute di Jamshid erano a dir poco precarie. “Quando mia moglie e mia madre mi hanno visto per la prima volta dopo l’arresto sono svenute: ero senza denti, pieno di lividi, con dolori lancinanti ed escoriazioni, non avevo più i capelli e riuscivo a malapena a parlare e camminare; avevo perso 24 chili e l’udito all’orecchio sinistro”. Le implicazioni mediche dei maltrattamenti subiti erano molto gravi. “Avevo diversi problemi di salute e necessitavo di cure e trattamenti sanitari adeguati. Ma le richieste di mia moglie affinché mi ricoverassero in strutture ospedaliere esterne venivano continuamente respinte”.
Il permesso di lasciare temporaneamente Evin gli viene finalmente concesso nell’estate del 2004. Jamshid aveva una forte broncopolmonite, problemi ai reni, ai polmoni e soprattutto al fegato a causa dei traumi subiti. “Durante il ricovero, gli uomini della Sahefaja mi tenevano sotto sorveglianza 24 ore su 24, e dopo solo sei giorni mi riportano in prigione, interrompendo le cure. Ci sono voluti 6 mesi per ottenere un altro permesso, ma si è ripetuta la stessa cosa”. Le condizioni del suo fegato andavano peggiorando e dopo quasi un anno ottiene la possibilità di un nuovo ricovero esterno. “Sapevo che non mi avrebbero consentito di portare a termine le cure. E io non ne potevo più di stare in prigione. Così ho deciso di tentare la fuga e ci sono riuscito, approfittando degli spostamenti per il ricovero. Dopo essermi nascosto per un certo periodo, sono uscito dall’Iran per recarmi in un paese straniero, da dove ho preso un aereo diretto negli Stati Uniti”.
Oggi Jamshid vive con la sua famiglia in Italia. Ha riconquistato la libertà dopo anni di torture e sofferenze, ma il suo popolo è ancora prigioniero del regime khomeinista. “L’opposizione in Iran è forte e sta crescendo. Gli iraniani possono riuscire a rovesciare i mullah e ad instaurare un governo laico, democratico e liberale. Il problema è che dobbiamo riuscirci da soli, non possiamo contare sull’aiuto esterno. I paesi occidentali ci hanno già abbandonato una volta, lasciandoci nelle mani di Khomeini. Non ci possiamo fidare di loro e ciò rende tutto più difficile”.