Funzione parlamentare e professione forense sono davvero incompatibili?
14 Ottobre 2011
E’ preliminarmente da ricordare che, nel regno monarchico, lo Statuto albertino (4 marzo 1848) all’art. 50 così testualmente recitava: “Le funzioni di senatore e di deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità”. Successivamente però con la riforma elettorale del 1912 (l. 30 giugno 1912, n. 365) fu riconosciuta ai deputati un’indennità configurata sotto forma di rimborso di spese per la corrispondenza e di compenso per altri titoli, con l’argomentazione che all’estensione del corpo elettorale non poteva non corrispondere una adeguata tutela della libertà degli eletti, soggetti al vincolo della soggezione economica senza la corresponsione appunto di un’indennità parlamentare. Nel vigente ordinamento repubblicano, l’art. 69 Cost. fissa il principio dell’indennità parlamentare, rinviandone la determinazione alla legge ordinaria, sicché al legislatore ordinario spetta ormai la più ampia libertà nella configurazione dell’indennità. Si osservi che, ai sensi dell’attuale normativa, la suddetta indennità non può formare oggetto di rinuncia o cessione, o essere sequestrata o pignorata. Dal punto di vista della sua natura, l’indennità parlamentare oggi è da qualificarsi come una vera e propria retribuzione (come specificato dalla Corte Costituzionale nel 1968).
In sintesi, lo stipendio dei nostri parlamentari è composto da una parte utile per il calcolo dei contributi previdenziali e da molte altre voci che incrementano notevolmente la cifra finale (come la diaria di soggiorno, remunerazione giornaliera per provvedere alle spese di mantenimento che si aggiunge all’indennità per chi è fuori sede), né si devono trascurare i gettoni di presenza e i rimborsi per i collaboratori.Vi è poi il vitalizio, ciò la rendita cui ha diritto un parlamentare che ha completato almeno una legislatura effettiva e dopo aver raggiunto un determinato requisito di età (65 o 60 anni a seconda dei casi). A parte altri benefici connessi alla status di parlamentare (o di ex parlamentare) tanto basta per esprimere forti perplessità sulla possibilità, oggi concessa, di rivestire la funzione di parlamentare e contemporaneamente di esercitare la libera professione forense. Una volta acquisito che nell’attuale configurazione (che ha alterato l’originaria natura giuridica) l’indennità rappresenta il riconoscimento di una funzione pubblica costituzionale fondamentale e ha assunto altresì la caratteristica di una retribuzione fissa pecuniaria (fissata dalla legge) l’esercizio della professione di avvocato confligge, sul piano deontologico, con lo stato di parlamentare in un ordinamento democratico che, per di più, come il nostro, è fondato sulla centralità del parlamento (c.d. forma di governo democratico parlamentare).
Non è ozioso ricordare che già nel 44 a.C. Marco Tullio Cicerone nel De Officiis chiamava praecpta officii (canoni deontologici) per la professione forense quei precetti che denotano l’insieme delle regole di condotta, aventi preminente valore etico, che devono essere rispettati da tutti coloro che esercitano la professione di avvocato: valore etico che, peraltro, nel contesto dell’ordinamento giuridico forense, acquista un’intrinseca giuridicità, in correlazione con la dignità della toga che implica, fra l’altro la “parità delle armi con l’avversario” (principio presente in vari scritti Ciceroniani) oggi solennemente consacrato nell’art. 111, comma 2 Cost. novellato ove, come è noto, è stabilito che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale”. Ora chi riveste la status di parlamentare con tutte le guarentigie ad esso connesse facendo parte di un potere costituzionale fondamentale ben difficilmente, allorché esercita contemporaneamente la libera professione forense, si può considerare in posizione di parità (e non invece di plusvalenza) con il difensore dell’altra parte e con lo stesso pubblico ministero.
Si può anche sospettare che (attese le funzioni costituzionali del parlamento e dei suoi singoli membri) egli possa esercitare quantomeno a livello psicologico un certo potere di influenza sull’organo giudicante che invece deve sempre rimanere terzo e imparziale (e quindi equidistante fra le parti, i loro difensori e gli interessi versati in giudizio); se poi accada che il parlamentare – avvocato sia componente o addirittura Presidente (come attualmente avviene) della Commissione permanente giustizia (che rappresenta un filtro in cui sono vagliati tutti i provvedimenti comunque aventi ad oggetto il pianeta giustizia) si crea una situazione perniciosa e deleteria per la stessa credibilità delle istituzioni democratiche già oggi alquanto scosse. Il che, come è agevole osservare, oggi non ha giustificazione alcuna, anche in considerazione del fatto che la funzione di parlamentare, non è, come prevedeva invece il precitato Statuto albertino, gratuita. Non si mette in dubbio la probità delle singole persone ma, nel campo della giustizia, questo non basta perché quella che conta è anche l’immagine dell’avvocatura di fronte all’opinione pubblica del nostro Paese.
Non è inutile ricordare che il celebre Piero Calamandrei, membro della Assemblea Costituente, insigne processualista, all’indomani della liberazione, da Presidente del Consiglio Nazionale Forense, (che riunisce, come è noto, tutti gli avvocati iscritti all’albo) ha costantemente sostenuto l’incompatibilità tra la funzione di parlamentare e l’esercizio della libera professione forense, come si può leggere nelle opere giuridiche di Calamandrei, curate dall’allievo M. Cappelletti (vol. II, Morano, Napoli, 1966) e come, fra l’altro in un suo bellissimo saggio sullo stesso Calamandrei, ci ricorda il costituzionalista Augusto Barbera.
*Professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”