Fuori Mubarak e senza una leadership Usa, Ryad potrebbe ritrovare Teheran
18 Febbraio 2011
A voler essere un poco cinici quando si parla di rivolte di popolo nord-africane e mediorientali, ci dovremmo chiedere a chi rimarrà il cerino in mano. Perché di regimi traballanti e autoritari in giro per la regione ce ne sono parecchi. Negli ultimi due giorni le rivolte hanno toccato il Bahrain, lo Yemen e la Libia. Ebbene sì anche “il regno” del colonnello Gheddafi e delle sue amazzoni. Il bilancio di ieri è, secondo Ong in Libia, di 15 morti negli scontri che a Tripoli e a El Baida hanno visto fronteggiamenti tra manifestanti e forze di sicurezza libiche.
In attesa, comunque, che gli storici ci dicano, tra circa venti cinque anni, quanto di spontaneo e quanto di pilotato vi sia stato nelle sommosse del mondo musulmano di queste ultime settimane, le posture di due attori statuali della regione paiono degne di riflessione: quelle di Arabia Saudita e dell’Iran. I due regimi, da anni ai ferri corti, hanno incominciato, ci si perdoni la forzatura, a “corteggiarsi”.
L’inconsistente posizione statunitense nella crisi egiziana, tanto per citare il caso più eclatante e recente, che ha visto vacillare la Casa Bianca in tutte le direzioni (sostegno, non sostegno, dimissioni di Mubarak, non dimissioni, dimissioni a Settembre, e così via), sta “permettendo” ai sauditi di costringersi a una resa alle mire regionali iraniane e all’assunzione di una postura diplomatica più incline all’appeasement e alla costruzione di alternative alleanze regionali. Saltato l’asse Cairo-Ryad, causa destituzione di Mubarak e sindrome da isolamento saudita, oggi nella regione alcuni stati un tempo meno inclini a scendere a patti con i persiani, mostrano tendenza al riposizionamento diplomatico, Arabia Saudita in testa.
Infatti alcune unità navali iraniane presenti nel Mar Rosso sarebbero state ospitate nel porto saudita di Jeddah. Ciò non dovrebbe sorprendere nessuno. Si ricorderanno i recentissimi strali di re Abdullah d’Arabia, riportati da fonti di intelligenze britnannica sul Times di Londra, contro l’amministrazione Obama, rea di non aver voluto esercitare una men che minima leadership durante gli sconvolgimenti politici e diplomatici degli ultimi mesi, dalo scandalo wikileaks alla presa di potere di Hezbollah in Libano fino alle rivolte del Cairo delle ultime settimane. L’ospitalità saudita alle unità navali iraniane di dieci giorni fa potrebbe essere una "candida" rappresaglia saudita nei confronti di Washington.
Di oggi, inoltre, il farsesco foto romanzo diplomatico-militare che ha visto le due stesse unità navali iraniane ospitate a Jeddah muovere verso Suez. Teheran ha inizialmente negato la rotta sul canale nella giornata di ieri, per poi annunciarne effettivamente la direzione sulla canale egiziano poco dopo, fino alla notizia data ieri sera dal Jerusalem Post, secondo cui le due unità iraniane avrebbero ufficialmente inoltrato agli egiziani richiesta di passaggio su Suez.
Da tutte queste mosse di Teheran, sembra emergere la possibilità che in assenza di un argine statunitense e di una leadership forte alla Casa Bianca, la regione mediorientale possa presto cadere in mano all’Iran di Ahmadinejad, o quanto meno esserne maggiormente influenzata di quanto non lo fosse in precedenza. Infatti molti Stati mediorientali che sino a ieri si erano opposti al tentativo egemonico regionale e culturale iraniano, da oggi potrebbero essere più inclini ad assecondare le pretese di Teheran.
E poi c’è Israele. Il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, annunciava l’altro ieri la sua forte preoccupazione per il possibile passaggio di due unità navali iraniane facenti rotta su Suez. A sostenere le preoccupazione del capo della diplomazia di Gerusalemme, l’annuncio del premier israeliano Benjamin Netanyahu di “tenersi pronti a qualsiasi scenario”. Perché saltato Mubarak, e con esso, anche l’argine egizio – saudita all’Iran, un tempo “benedetto” dagli Usa, è venuto meno anche il sistema di contenimento regionale all’Iran. Il popolo egiziano merita certo un futuro democratico, ma in attesa che si doti di un nuovo governo sovrano, i rischi che l’Iran si avvantaggi della situazione sono enormi.
Negli ultimi anni la dittatura di Mubarak era riuscita a impedire che gli iraniani potessero avere accesso al canale egiziano e, con esso, allo spazio geostrategico del Mar Mediterraneo. L’illusione che l’Egitto possa presto ritrovare una politica estera egiziana coerente, è un lusso non sostenibile. Nel frattempo Teheran sta usando le tensioni democratiche di questi giorni, anche quelle inter-islamiche (il caso del Bahrain dove la maggioranza sciita reclama più rappresentatività nei confronti della minoranza sunnita che esprime la monarchia dell’Emirato ne è emblema).
Se a tutto ciòsi accompagna una leadership statunitense debole, a Teheran basta poco per mettere le mani sull’agognata proiezione militare e diplomatica sul Mar Mediterraneo e incominciare a mettere in discussione la presenza statunitense nell’area (nel Bahrain c’è anche la base navale statunitense che ospita la V flotta della U.S. Navy).
Qualcuno avverta la Casa Bianca. Si faccia notare che per aiutare gli iraniani ad aiutare sé stessi (unica speranza per un vero trionfo democratico nella regione mediorientale) non basta che il dipartimento di Stato si sia dotato di un account twitter in lingua farsi. Per piegare l’ideologia khomeista di Teheran serve ben altro.