Gerusalemme è il nuovo fronte delle tensioni tra Usa e Israele
20 Luglio 2009
Nel weekend il Dipartimento di Stato americano ha convocato l’ambasciatore israeliano negli Usa, Michael Oren, per dirgli che gli Usa chiedono allo stato ebraico di bloccare la demolizione dello Shepherd Hotel, nella zona est di Gerusalemme, che dovrebbe portare alla costruzione di una trentina di nuove unità abitative israeliane.
Il complesso dello Shepherd Hotel e i quartieri limitrofi sono un luogo storico per i palestinesi. Da queste parti sorgeva la “Orient House” che fu a lungo sede dell’OLP prima di essere chiusa dagli israeliani (per poi tornare in mani palestinesi). La destra di "Israel Beitenu" ha lasciato intendere che le pressioni diplomatiche americane non serviranno a bloccare i progetti di costruzione già approvati dal municipio. Slitta anche la visita dell’inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, Mitchell, che dovrà discutere con il governo israeliano sul “congelamento” degli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Forte del richiamo fatto a Oren dal Dipartimento di Stato Usa, il capo-negoziatore palestinese Erekat ha dichiarato: “Non ci sarà mai pace tra israeliani e palestinesi se Gerusalemme Est non diventerà la capitale dello stato palestinese”. Secondo Erekat, i progetti legati all’abbattimento dello Shepherd Hotel “aggiungono degli ostacoli” alla soluzione del conflitto. La definizione dello status di Gerusalemme è in effetti una delle questioni decisive del processo di pace iniziato con gli Accordi di Oslo del 1993, che lo storico incontro tra Rabin e Arafat lasciò irrisolte. Da allora, i palestinesi chiedono che la parte Est della città divenga la capitale del loro nuovo stato.
Ne hanno il diritto? Il piano delle Nazioni Unite del 1947 proponeva la creazione di uno “speciale regime internazionale” per la città di Gerusalemme, che sarebbe diventata un “corpo separato” sotto l’amministrazione dell’ONU. Un referendum avrebbe dovuto definire il futuro della città.
Le cose andarono diversamente.
Ma è con la “Guerra dei 6 giorni” scoppiata nel 1967 che i confini dell’area assumono i tratti – e di conseguenza i problemi – che conosciamo oggi. L’ha spiegato per bene proprio l’ambasciatore Oren, in un libro che racconta perché il presidente egiziano Nasser – vittima delle sue illusioni panarabe e della disinformazione sovietica – si mise a capo di un’alleanza che comprendeva praticamente tutti i paesi arabi, con l’obiettivo di ributtare a mare di ebrei.
Con toni giubilanti, i giornali delle grandi capitali arabe annunciavano il conflitto finale per sterminare Israele. “Distruggeremo Israele e i suoi abitanti – disse uno dei capi dell’OLP – e per i sopravvissuti, se ci saranno dei sopravvissuti, abbiamo già preparato delle navi per deportarli”. Grazie a un’operazione militare da manuale, l’aviazione israeliana sconfisse Nasser e vinse la guerra.
Fino a quel momento Gerusalemme Ovest era la capitale di Israele, sebbene non fosse riconosciuta dalle Nazioni Unite, e nonostante la Giordania avesse occupato la parte Est.