Gerusalemme, se Trump rovescia il paradigma delle “road map”
06 Dicembre 2017
Non è Trump che ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ma gli Usa svariati anni fa, solo che mai un presidente aveva fatto saltare quella clausola sull’effettivo trasferimento della rappresentanza diplomatica, rimandata ogni sei mesi dalla Casa Bianca, mentre il Don l’ha fatto e adesso vedremo che succederà. Gerusalemme, la città santa cara a tre religioni è già, di per sé, capitale dello stato ebraico, ma viene rivendicata come tale, una parte almeno, anche dai palestinesi. Non sappiamo ancora se Trump renderà effettiva la decisione di spostare l’ambasciata, e in quanto tempo avverebbe il trasferimento, certo è che Donald lo aveva annunciato in campagna elettorale e l’ha ripetuto nelle ultime ore scatenando il solito putiferio nelle cancellerie occidentali e in Medio Oriente.
La Giordania ha subito chiesto udienza al presidente francese Macron, il vero ministro degli esteri europeo, mentre i sauditi scalpitano, l’Iran minaccia e la Turchia reagisce. La questione palestinese, ricordiamolo, è forse uno dei pochi elementi in grado di ricompattare i fronti sunnita e sciita che al momento in Medio Oriente si scontrano in una sorta di guerra mondiale islamica. Né si può dire con certezza quanto Trump dica e poi realmente faccia, visto che adesso non si parla più del Russiagate, il presunto scandalo sulle influenze russe nella vita politica Usa, bensì di Gerusalemme e della ambasciata americana. In ogni caso perché adesso in tanti strepitano contro la decisione trumpista mentre invece, quando ad essere riconosciuta a livello internazionale è stata la Palestina, sembrava un atto di democrazia globale?
Forse però la riflessione da fare è un’altra. Con Trump, e con Jared Kushner, il genero del Don consigliere anziano alla Casa Bianca (anche lui ‘mascariato’ dal Russiagate), stiamo assistendo a una revisione non si capisce ancora se parziale o sostanziale nelle tradizionali relazioni tra arabi, palestinesi e israeliani. Lo strappo di Trump su Gerusalemme in questo senso andrebbe interpretato come un esempio del nuovo corso americano, e cioè a dire che il processo di pace, la road map israelo-palestinese, lunghi anni di accordi e di vertici tra le due parti superstrombazzati dai media e che non hanno mai risolto un bel nulla, tutto questo potrebbe essere, e forse in parte lo è già, superato.
Il paradigma “due popoli-due stati”, che si porta dietro anche la questione di Gerusalemme e del suo status, è logoro, sempre più inattuale. Nei nuovi assetti che si stanno delineando a livello internazionale serve un approccio diverso verso crisi che si autoalimentano senza soluzione da troppo tempo. Chissà che Trump, con le sue mosse a sorpresa, la sua rete di relazioni personali e familiari, la sfiducia verso “quartetti” ed enti sovranazionali, la predilezione per le relazioni bilaterali tra i diversi pesi, la “NATO araba” e le relazioni diplomatiche sempre più strette tra sauditi e israeliani, alla fine, ancora una volta, non riesca a determinare o almeno innescare il cambio di paradigma necessario a far fare un passo avanti nella soluzione della “questione palestinese“. Per adesso, i maligni dicono che rischia solo di far scoppiare altre guerre e versare altro sangue.
Sarà ma il presidente che doveva passare alla storia come l’uomo che avrebbe rinchiuso l’America su se stessa invece a quanto pare sta facendo rimanere la sua nazione protagonista sulla scena internazionale. Intanto, gli islamisti di Hamas bruciano bandiere con il volto del Don e preparano nuovi “Giorni della rabbia”. Paesi come la Giordania comprendono che il periodo delle vacche grasse è finito e che le vecchie rendite di posizione diplomatiche potrebbero sparire presto. Le cancellerie europee balbettano. E Israele rimane alla finestra, in prudente attesa, cercando di capire dove vuole andare davvero a parare Donald Trump.