Giampaolo Pansa: la verità oltre l’ideologia

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Giampaolo Pansa: la verità oltre l’ideologia

Giampaolo Pansa: la verità oltre l’ideologia

15 Gennaio 2020

Sebbene Giampaolo Pansa sia, ormai, deceduto da alcuni giorni, non si è mai fuori tempo massimo per parlare della sua ricerca della verità. Egli, infatti, non è stato solo un giornalista, uno scrittore, un romanziere dalla penna meravigliosamente limpida, lucida e graffiante, ma un autentico ricercatore dell’effettivo andamento degli eventi. I suoi libri saranno da monito per le generazioni future, quelle che, sfortunatamente, non potranno sentirne la voce viva e vibrante e non potranno viverne la lotta continua contro il muro del silenzio e dell’omertà storica, avverso il quale Pansa si scagliò con tanta virulenza, da abbatterlo. Forse, molti ancora non riescono a rendersene conto, ma la rivoluzione innescata da “Il Sangue dei Vinti” e, in seguito, da “La grande bugia” e “I gendarmi della memoria” ha segnato l’inizio della fine di una coltre di falsità e mistificazioni, che hanno tenuto celata una parte cruciale della nostra storia nazionale. Eppure, oggi, nulla sarà più come prima, perché la penna di Giampaolo Pansa ha squarciato quel velo che non potrà mai più ricomporsi.

Egli ha pagato caro quel suo ardente desiderio di scavare nella storia della resistenza e quella sua ferrea volontà di non limitarsi alle apparenze: il conto, per questo, è stato salatissimo ed ha comportato una fatwa da parte del mondo di sinistra, a cui fino ad allora, anche se da uomo sempre libero, era sempre appartenuto. Iniziò presto la sua carriera ed il suo primo colpo da fuori classe, si ebbe quando, durante la tragedia del Vajont, come inviato de La Stampa aprì il suo articolo con un incipit destinato a diventare leggenda: “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. Poi, dopo una breve parentesi a Il Giorno, approdò a via Solferino in quel Corriere della Sera, dove si distinse per la sua straordinaria dote di cronista politico, fino al passaggio alla nascente La Repubblica, un’avventura alla quale dedicò un bel libro “La repubblica di Barbapapà”, nel quale Barbapapà è il soprannome che la redazione ha dato ad Eugenio Scalfari. Infine, arriva a L’Espresso, dove raggiunge la condirezione. Sono anni densi, in cui all’attività di cronista attento alla politica italiana – scorgendo aspetti che altri difficilmente coglievano e munito di binocolo durante le assise dei partiti – alternava l’attività di scrittore, regalandoci opere meravigliose come “I nostri giorni proibiti”, “Ti condurrò fuori dalla notte” e “Il bambino che guardava le donne”. Fu lui che riuscì a far dichiarare a Berlinguer che si sentiva più sicuro sotto l’egida della NATO. Fu sempre lui l’uomo degli scoop, dal caso Lockheed, all’anticipazione sulle pagine di Repubblica della decisione del PSI di optare per Sandro Pertini, per la Presidenza della Repubblica nel 1978. Fu lui a creare nomignoli divenuti leggendari dal “Balena bianca” affibbiato alla DC a “L’elefante rosso” per il PCI. Sulle pagine de L’Espresso rese celebre il suo bestiario, fino quando la sua vita non cambiò profondamente proprio in seguito alla pubblicazione de “Il Sangue dei Vinti” nel 2003.

Da allora Giampaolo Pansa, per la sinistra, divenne un traditore, un reietto, un pericoloso revisionista: la sua colpa? Amare la verità.

Sin dalla sua giovinezza si occupò di Resistenza, come racconta in “Bella Ciao. Controstoria della resistenza” e quella passione non venne mai meno. Così riprese gli studi di alcuni storici, giudicati e bollati come “fascisti”, tra i quali, ad esempio, Pisanò. Indagò ed ascoltò le testimonianze, portando al grande pubblico la brutalità della guerra civile che, tra il 1943 e il 1945, insanguinò i territori della ex Repubblica Sociale Italiana. Non ebbe timore di raccontare le violenze dei partigiani, perpetrate anche dopo la fine della guerra; le vendette personali; le brutalità, sulle quali la storiografia ideologizzata ancora oggi si rifiuta di volgere lo sguardo.

Dopo Giampaolo Pansa nessuno potrà dire “non è vero”. Da quel momento, trovò asilo prima a Il Riformista, poi a Libero, ed infine a La Verità, prima di riapprodare nuovamente al Corsera. Uno dei suoi ultimi libri “I Cari estinti”, esprime tutta la nostalgia verso quella classe politica che aveva spiato col binocolo e di cui l’Italia tragicamente rimase orfana.