Gino De Dominicis, artista del tempo e dell’immortalità
07 Dicembre 2008
"Un pittore è come un prestigiatore che con i suoi giochi deve riuscire a sorprendere se stesso. In questo sta la complessità".
Qualche anno prima che la morte lo cogliesse il 29 novembre 1998, Gino De Dominicis così diceva spiegando se stesso e il suo fare arte.
A sorprendere lui era abituato. Aveva cominciato già a 22 anni quando aveva tenuto la sua prima personale a Roma alla Galleria L’Attico di Fabio Sargentini, presentandosi al suo “battesimo” nel mondo dell’arte con un manifesto mortuario con il suo nome.
La morte, l’immortalità, lo scorrere del tempo, la verifica dell’esistenza umana sono i temi che avrebbe rincorso tutta la vita. Diceva: "Gino De Dominicis è nato nel 1947 ma non esiste veramente essendo soltanto uno strumento della natura che verifica attraverso di lui alcune possibilità". Per tutti gli anni settanta si sarebbe impegnato nella possibilità di sfidare la natura, di rendere il visibile invisibile e l’invisibile visibile. Del 1969 sono opere come l’asta in bilico, in cui un’asta dorata resta in bilico su una punta sottilissima, e la palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo che consiste in una comune palla semplicemente appoggiata a terra.
Di quello stesso anno sono anche gli oggetti invisibili, il Cubo e il Cilindro, che consistono solo nei loro perimetri tracciati sul pavimento e che lui spiegava così: “Se si riuscisse a creare una illusione di presenza di oggetto a tal punto che nessun oggetto-persona attraversi o risieda in quello spazio, si sarebbe creato uno spazio dove nessuno si è mosso o ha risieduto e quindi automaticamente non sarebbe più spazio ma oggetto”.
Sono gli anni in cui l’arte concettuale si afferma a livello mondiale. Se fino ad allora l’oggetto era stato al centro della produzione artistica, da questo momento in poi molti artisti cominciano a produrre opere il cui significato non risiede nell’oggetto ma solo nell’idea. De Dominicis rifiuta questo processo e in una sua celebre affermazione dice ironicamente: “Il termine ‘arte concettuale’, di origine americana, in Italia è molto piaciuto forse perchè ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina, ecc…; e viene di continuo usato stupidamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile.”
Con le sue opere, anche in quelle che sembrerebbero dire il contrario, De Dominicis, rifiuta la smaterializzazione dell’oggetto d’arte e invece di ridurre il tutto a idea dà forma a questa attraverso la sua visualizzazione concreta.
Come quando espone Mozzarella in carrozza (1970), in cui una vera carrozza ospita al suo interno sul sedile posteriore una vera mozzarella portando il nome di un piatto della cucina italiana a prendere la vera forma delle parole che lo compongono.
Con lo stesso meccanismo sempre nel 1970 espone Lo Zodiaco: all’interno della galleria i dodici segni zodiacali si materializzano, così il segno del toro è rappresentato da un toro vivo, quelle del leone da un vero leone in gabbia, quello dei pesci da due pesci morti appoggiati sul pavimento, quello della vergine da una giovane ragazza, e così via.
Qualche anno dopo, nel 1972, viene invitato alla Biennale di Venezia. Qui presenta Seconda soluzione d’Immortalità, (L’Universo è Immobile) nella quale il signor Paolo Rosa, un giovane affetto dalla sindrome di Down, siede in un angolo di fronte al cubo invisibile, alla palla di gomma e alla pietra in attesa di movimento. L’opera desta scandalo, la stanza viene chiusa e l’artista subisce un processo per sottrazione di persona incapace. Il processo poi si conclude con l’assoluzione dell’artista e sono in tanti a etichettare da quel momento De Dominicis come “l’artista che ha esposto il mongoloide”. Sarà Eugenio Montale, in occasione del discorso di ringraziamento per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura del 1975, a difenderlo pubblicamente.
Gino De Dominicis non può fermare la sua vena creativa e in quello stesso anno alla galleria De Domizio di Pescara inaugura una mostra il cui ingresso è riservato ai soli animali, mentre nel 1977 alla galleria Pio Monti di Roma è protagonista di una mostra che viene ripetuta identica a distanza di un anno esatto nello stesso spazio, a voler dimostrare la capacità dell’arte di sottrarsi al passaggio del tempo.
La mostra riunisce lavori precedenti, ne rappresenta una summa e segna il momento di passaggio ad altri mezzi di espressione che avverrà negli anni successivi quando si dedicherà quasi esclusivamente a disegno, pittura e scultura.
I lavori di questo secondo periodo sono quasi esclusivamente realizzati con tecniche tradizionali come tempera e matita su tavola o su tela. Per tutti gli anni ottanta e gli anni novanta dimostra la sua eccezionale capacità pittorica in opere come In principio era l’immagine, in collezione al MoMA di New York e Auronia D.D. a 99 anni in 99 luoghi, esposta alla Biennale di Venezia del 1997. Negli stessi anni porta avanti una difesa strenua delle sue opere impedendone qualsiasi tipo di documentazione e riproduzione fotografica. Per uno che credeva che le opere d’arte fossero esseri viventi: “le mie opere spesso si sono rifiutate di partecipare alla grandi mostre”, la fotografia era qualcosa di morto perchè: “Non crea. Riproduce o interpreta l’esistente”.
Anche quando dipinge De Dominicis continua la sua analisi sul tempo e sull’immortalità che sta all’origine di tutto il suo pensiero. Come aveva fatto con quelle opere di cui non amava più parlare, anche nei disegni, nelle tempere, negli olii si interroga sugli stessi temi filosofici di sempre e si ispira ai miti di Urvasi e di Gilgamesh.
Come quest’ultimo va alla ricerca dell’immortalità e alla fine del suo lungo e tormentoso viaggio, capisce di aver trovato la risposta a tanto errare davanti alla grandezza della mura della sua stessa città, così De Dominicis se n’è esattamente andato dieci anni fa, con la consapevolezza che per andare avanti lui si sarebbe potuto solo voltare indietro, perché come afferma in un suo scritto: “Oggi, tra i tanti ‘rovesciamenti’, si perpetua anche nell’ arte una percezione del tempo rovesciata; l’arte e gli artisti contemporanei infatti si considerano e sono considerati moderni, mentre venendo dopo tutto ciò che li precede dovrebbero sapere di essere più antichi. […] Io sono sicuramente più antico di un artista egiziano”.