Giocare a “Monopoly” può aiutare a capire il sistema delle banche centrali
16 Settembre 2010
Come il genere letterario dell’ucronia (spesso frequentato anche dagli specialisti) fornisce un buon laboratorio per sperimentare con efficacia modelli virtuali di storiografia fatta finalmente pure con i “se” e con i “ma” (indispensabili al serio lavoro scientifico, ricordava il medioevista Marco Tangheroni [1946-2004]) così persino il gioco può essere un buon test della realtà circostante. In specie i giochi di ruolo e quelli di società, che simulano o sublimano scenari concreti.
Chi di noi, per esempio, da ragazzo o da meno giovanotto, non si è cimentato con l’arcinoto Monopoli, «l’originale gioco di contrattazione della Parker Brothers» oggi rilanciato come Monopoly, all’inglese, cambia la finale e forse pure l’accento, ma non la sostanza? Mio figlio, otto anni appena compiuti, ne va matto, una delle sue insegnanti alla scuola estiva dice che ha finalmente appreso da lui come si gioca appropriatamente e così per il compleanno i nonni hanno provveduto a regalargli la scatola completa di plancia, segnalini, proprietà per la compravendita e lo scambio tra giocatori, mazzi di carte degl’“Imprevisti” e delle “Probabilità”, un nutrito portafogli di banconote farlocche e il rigoroso must: tutti ritirano l’agognata prebenda ogni volta che transitano dal “Via!”.
Partitoni serali in questo scorcio di estate per tutta la famiglia. Ma ogni tanto occorre ripassare le regole del gioco, numerose e un po’ complesse, ché certo il passare degli anni non aiuta la memoria sempre più intasata di papà. Leggo quindi alla voce “La Banca”, iniziale maiuscola di potere e di scienza, istituto di credito per definizione e per eccellenza, sportello centrale unico, mondiale e globale, deus ex machina nel e del gioco, sola fonte e solo destinatario di ogni scambio monetario, onnipotente gestore dell’universo fittizio di Monopoly, suggitrice pure d’imposte e tasse, impositrice di pagamenti punitivi extra per insindacabile giudizio e totale arbitrarietà, vero master of reality e arbiter indiscutibile di ogni azione dei giocatori-pedine. E leggo così, testuale: «La Banca non può mai andare in bancarotta. Se la Banca dovesse esaurire tutte le banconote, il Banchiere può emettere altro denaro – tanto quanto ne occorre – con semplici fogli di carta con il valore riportato per iscritto». Leggo, rileggo e sussulto. Altro che Monopoly e i suo soldi fasulli! Questo è il mondo reale, questo è il sistema bancario de “la mia banca è diversa” ma non è vero, è “che banca” che incamera i miei denari di carta e mi ridà titoli di credito di plastica. Il gioco di società altro non fa, cioè, che mimare, benone, la realtà.
Anche nel mondo in cui davvero viviamo voi e io succede così; è così anche in quel sistema bancario in virtù del quale crediamo di essere gli unici padroni dei soldi che consegniamo a un conto corrente e a cui pare abbiano invece “diritto” innumerevoli altre persone, e a nostra insaputa (certamente né sappiamo né mai sapremo chi sono costoro, dove abitano, che professione svolgono), tale per cui se un bel dì tutti decidessimo di chiedere indietro contemporaneamente i depositi il nostro sportello di riferimento comune entrerebbe in crisi immediata.
Il sistema delle banche centrali funziona come Monopoly: quando finisce il liquido ne stampa altro il cui valore è solamente quello scritto con l’inchiostro su quella carta multicolor che chiamiamo denaro, al massimo stabilito secondo criteri esclusivamente politici. Nulla, o sempre meno, àncora il denaro con cui facciamo quotidianamente tutto a un bene reale, a una misura concreta, a un solido pezzo di roccia che possa con una certa dose di visibilità determinare il valore autentico del biglietto che teniamo in mano. Il valore di ciò che usiamo per scambiare, acquisire e vendere è quindi fittizio, irreale, etereo. Idem dunque ciò che scambiamo, acquisiamo, vendiamo. Non sui sassi costruiamo la nostra casa ogni giorno, ma su mefitiche e mobili sabbie che possono inghiottirsi tutto da un momento all’altro, senza peritarsi di dover inviare alcun preavviso. Chiunque abbia giocato anche una sola partita a Monopoly non dovrebbe affatto meravigliarsi quando scoppiano le “bolle immobiliari” e diluviano le crisi finanziarie globali.
Sono del resto pensieri così quelli che attraversano da sempre la riflessione sociale della Destra statunitense libertarian e conservatrice, e un buon sunto, nato ad hoc di fronte all’attuale crisi internazionale ma gravido d’informazioni di quadro e di spunti di fondo, è il libro Meltdown: A Free Market Look at Why the Stock Market Collapsed, the Economy Tanked, and Government Bailouts Will Make Things Worse (Regnery, Washington 2009) di Thomas E. Woods jr., un uomo di cultura che è l’emblema stesso del superamento di certi steccati di scuola (ma molto pure di maniera) che (un po’ per comodo e molto per faciloneria) noi giornalisti ritagliamo addosso alla gente come abiti sempre troppo stretti. Woods, infatti, è uno storico con la passione del commento di attualità, uno studioso di scienze sociali e un appassionato di teologia, un “cattolico da Messa in latino” e un Senior Fellow al Ludwig von Mises Institute di Auburn, Alabama, ossia la quintessenza del libertarianism più radicale che troppi continuano a confondere con il “libero pensiero” o addirittura con il libertinismo, insomma un conservatore autentico amante della tradizione e un devoto sostenitore delle libertà personali.
La finanziarizzazione totale dell’economia, lo sganciamento di quest’ultima da ogni riferimento reale, le bolle speculative create dalla vendita a buon mercato di fumo e illusioni spesso generate da visioni ideologiche del mondo, nonché l’abbandono del sistema di riferimento aureo – il famoso gold standard – stanno, spiega bene Woods, alla base dei cortocircuiti tipici dell’epoca in cui viviamo, dominata da iperuranici sogni liberal e da progressistissime elucubrazione destituite di qualsiasi fondamento che costantemente limitano gli spazi di libertà delle persone, minano alla radice la loro capacità di autogoverno e responsabilità, e che tutto consegnano nelle mani nel dio unico della Modernità, lo Stato, sempre più (diceva un gran conservatore anglofrancese quale fu Hilaire Belloc [1870-1953]) Stato servile nelle cui maglie i cittadini finiscano schiavi.
A questo punto un’altra buona lettura, intrisa d’insegnamenti provenienti dai maestri della Scuola austriaca di economia che è moneta sonante (vera) dentro il conservatorismo statunitense tutto, è la raccolta di articoli e d’interventi che l’economista finanziario Francesco Carbone ha pubblicato con il titolo Prevedibile e inevitabile. La crisi dell’interventismo. Le cause del disastro e i rimedi possibili (Associazione Culturale USEMLAB, Torino 2008; www.usemlab.com), che bene spiega l’antico (almeno cinquecentesco) meccanismo di reciproco spalleggiamento prima e di granitica saldatura poi fra banche centrali e Stati che sempre più ha a che fare con l’esercizio dispotico del potere (dalle signorie accentratrici di ieri fino ai dirigismi attuali, passando per quei totalitarismi che non sono affatto imprevisti incresciosi) e con la limitazione delle libertà personali fondamentali. Meraviglia che uno dei gridi di battaglia della Destra statunitense sia ora e sempre “Il nostro nemico è lo Stato”, gemello di quello che dice: “Aboliamo le banche centrali”? Giochiamo di più a Monopoly. Aiuta a rendersi contro della realtà che c’inghiotte.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]