Giovanni Paolo II, il grande testimone di Dio e del ruolo pubblico della Chiesa

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Giovanni Paolo II, il grande testimone di Dio e del ruolo pubblico della Chiesa

24 Aprile 2011

Tra i tanti meriti del pontificato di Giovanni Paolo II, che sarà beatificato il prossimo 1 maggio, va anche annoverato il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa (DSC) e il suo chiaro e definitivo inserimento nella missione di evangelizzazione della Chiesa.

Nel 1978, quando il cardinale Wojtyla fu eletto Papa, la DSC non se la passava molto bene, anzi. In Europa era stata sostituita dalla teologia politica di J. B. Metz e in America Latina dalla teologia della liberazione di Leonardo Boff. Era in atto il grande compromesso storico tra cristianesimo e marxismo. Il teologo M. D. Chenu – che ebbe parsa magna durante il Concilio – aveva decretato che essa era “ideologia”. Gli esegeti del Concilio sostenevano che nella Gaudium et spes non c’era nemmeno l’espressione e che Paolo VI  aveva commemorato nel 1971  la Rerum novarum non con una enciclica ma con una Esortazione apostolica, ossia con un documento minore, proprio perché anche lui convinto che la DSC fosse in irreversibile declino.

Ma venne il cardinale Wojtyla che subito, nella sua prima omelia da Papa, invitò a non aver paura di Cristo e di aprirgli le porte, non solo dei cuori ma anche  dei “confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo”. Egli, quindi, riproponeva il ruolo pubblico della fede cristiana. In quegli anni si pensava che il cristianesimo non avesse qualcosa da dire di proprio sulla società e ce questa pretesa fosse, appunto, ideologica. Si diceva che per questo i cristiani dovevano attingere dal mondo le regole del loro agire nella polis. Wojtyla invece era dell’idea opposta: proprio per non appiattirsi sulle logiche del mondo – a cui apparteneva anche il marxismo – e quindi per non diventare ideologia il cristianesimo doveva esprimere quanto gli era proprio. Accadde che, appena eletto, egli si dovesse recare a Puebla, in Messico, all’assemblea dell’episcopato latinoamericano (Celam). Era un’occasione unica per rovesciare quegli schemi di pensiero e Giovanni Paolo II non se la lasciò sfuggire. Alla precedente assemblea del Celam tenutasi a Medellin nel 1969 era stato convalidato il nuovo metodo della teologia della liberazione. A Puebla Giovanni Paolo II ripropose invece la Dottrina sociale della Chiesa. Le cose non cambiano dall’oggi al domani ed anche ai nostri giorni ci sono università cattoliche latinoamericane completamente orientate alle teologia della liberazione, ma il coraggio di Giovanni Paolo II è fuori discussione. Del resto è stato poi sotto il suo Pontificato che il cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, ha valutato negativamente la teologia della liberazione in due importanti Note pastorali. Una di queste – la

Giovanni Paolo II parlò di Dottrina sociale della Chiesa già all’interno delle sue tre encicliche trinitarie – Redemptor hominis (1979), Dives in misericordia (1980), Dominum et Vivificantem (1986). Scrisse tre encicliche sociali di fondamentale importanza – Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) Centesimus annus (1991) a cavallo di un periodo di cambiamenti globali a seguito del crollo del Muro. Volle che la Dottrina sociale della Chiesa fosse inserita nel nuovo Catechismo della Chiesa cattolica a segnalare la sua appartenenza alla missione stessa della Chiesa. Egli precisò la natura della DSC, stabilì che tipo di sapere essa è ed ha scritto in particolare un paragrafo – il n. 41 della Sollicitudo rei socialis – in cui chiarisce definitivamente che non è una ideologia ma appartiene al campo della teologia morale, pur essendo, come  afferma altrove, una “categoria a sé”. Al giro di boa del Millennio, nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente ha chiesto a tutti i cattolici di fare un esame di coscienza su come hanno vissuto e incarnato la Dottrina sociale della Chiesa. In prossimità del passaggio al nuovo Millennio concepì anche il progetto di un “Catechismo sociale” che riassumesse l’intero corpus della Dottrina sociale della Chiesa. Nacque così,  anche se dopo una lunga fase di elaborazione e non pochi contrasti dentro la Curia, il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace un anno prima della sua morte e che rimane un punto di riferimento obbligato per chiunque voglia conoscere, in sintesi, il pensiero della Chiesa sui singoli problemi della società umana.

Non possiamo poi dimenticare che Giovanni Paolo II  ha esteso l’ambito tradizionale della Dottrina sociale della Chiesa, allargandolo ai temi connessi con la vita. L’enciclica Evangelium vitae (1995), infatti, parla della vita ma anche della democrazia, della legge e dell’obiezione di coscienza. Essa stabilisce il famoso nesso tra i poveri dei tempi della Rerum novarum – gli operai – e i poveri di oggi, tra cui i bimbi concepiti cui non si permette di nascere. Da allora non è più possibile separare le tematiche della bioetica da quelle della biopolitica e quest’ultima ha molto da interloquire con la Dottrina sociale della Chiesa. Anche la famiglia e l’amore umano sono stati trattati da Giovanni Paolo II in chiave anche sociale. Penso qui alla Familiaris consortio (1981), alla Mulieris dignitatem (1988) sulla donna e, soprattutto, alla lunga catechesi del mercoledì sull’amore umano, che ha poi preso il nome di “Maschio  e femmina li creò”.

Non credo ci sia viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in cui egli non abbia toccato temi sociali visti alla luce del Vangelo. All’ONU in due occasioni, nella storica visita a Cuba oppure nella Casa degli Schiavi nell’isola di Gorée in Senegal nel 1992, durante uno dei tanti viaggi in Africa, ha riproposto l’antropologia sociale cristiana, che durante il suo pontificato la Santa Sede ha difeso e promosso, insieme spesso con i paesi poveri, nei grandi Vertici dell’Onu al Cairo su procreazione e sviluppo (1994) o a Pechino (1995) sulla donna. Spesso ha fatto visita ai lavoratori, si è messo il caschetto protettivo ed è entrato nelle fabbriche come per esempio le acciaierie Terni nel 1981 o alla Solvay di Rosignano nel 1982, ha parlato del lavoro anche in riferimento alla sua esperienza personale di giovane operaio.

L’Italia deve molto al magistero sociale di Giovanni Paolo II. A questo proposito il nostro pensiero va alla sua invettiva dai templi di Agrigento contro la mafia nel 1993 fino all’incontro con il Parlamento italiano, ormai molto stanco e debilitato, il 14 novembre 2002.  

L’idea di fondo che ha animato un pontificato così ricco nel settore del rilancio della Dottrina sociale della Chiesa era già contenuta nella Redemptor hominis, la prima e fondamentale enciclica, chiave per comprendere tutto il suo episcopato. Questa idea è che il compito della Chiesa è di dirigere l’umanità verso il mistero di Cristo e così “contemporaneamente si tocca anche la più profonda sfera dell’uomo, la sfera dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane (n. 10).