Giustizia, perché il caso Palamara e il caso Franco sono due facce della stessa medaglia

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Giustizia, perché il caso Palamara e il caso Franco sono due facce della stessa medaglia

Giustizia, perché il caso Palamara e il caso Franco sono due facce della stessa medaglia

03 Luglio 2020

di Frodo

Il caso Palamara dimostra cos’è stato il sistema giudiziario italiano negli ultimi anni. Qualcuno potrebbe consigliare di leggere il quadro dell’ex presidente dell’Anm alla stregua di un episodio. Quasi come se, personalizzando la faccenda, la portata dello scandalo potesse venire meno. A nostro giudizio non è possibile
 
. Perché il caso Palamara, per quanto ne sappiamo, è paradigmatico – oseremmo dire sintomatologico – di una prassi che non può riguardare soltanto un magistrato, un uomo ed una logica individuale. Il fatto buffo è che i sostenitori dei teoremi inchiestistici – abitano tutti nel campo progressista – potrebbero adesso dover fare i conti con un “teorema Palamara”. Anzi, nel caso volessero essere coerenti con quello che hanno provato a raccontare negli ultimi decenni, dovrebbero costruire un vero e proprio “teorema Palamara”. Con tutta la mediaticità che contraddistingue di solito la composizione di teoremi.
Insomma, il caso dell’ex membro del Csm non è un fatto a sé. E questo si deduce in realtà anche attraverso le dichiarazioni dell’ex pm romano: “Perché Palamara non si è svegliato una mattina e ha inventato il sistema delle correnti. Ma ha agito e ha operato facendo accordi per trovare un equilibrio e gestire il potere interno alla magistratura – ha dichiarato al quotidiano diretto da Maurizio Molinari -. La Costituzione ha voluto che la magistratura fosse autonoma e indipendente. Per esercitare questo potere i magistrati hanno scelto di organizzarsi in correnti che nascono con gli ideali più nobili, ma che storicamente hanno poi subito un processo degenerativo…”. Palamara lo ha detto a Repubblica, non a L’Occidentale. I toni sembrerebbero quelli di una persona che vuole raccontare come funziona il “sistema”. Qualcuno, in specie nel campo del centrodestra, lo ha già invitato a “parlare”. Sarebbe un bene, nel caso ci fossero cose da dire in grado di svelare agli italiani lo stato di salute del potere giudiziario.
 
La strumentalizzazione della giustizia, magari mediante correnti, non è una novità. Chi lo ha segnalato, in passato, è stato spesso ostracizzato in quanto nemico dello Stato o qualcosa di molto simile. I vari tentativi di riformare nel profondo la giustizia sono sempre stati accolti da cori di scherno e preoccupazioni scandalizzate varie. La separazione della carriere tutt’oggi rimane un tema tabù. Checché ne dicano le forze parlamentari attualmente al governo, con le loro chiacchiere trite e ritrite, e con i loro pochissimi risultati concreti. In tutto, figuriamoci in relazione alla giustizia. Ma questa è un’altra storia. I giorni che abbiamo alle spalle ci hanno permesso anche di rileggere un’altra vicenda: quella riguardante la sentenza inflitta a Silvio Berlusconi. 
 
Tutto, a ben vedere, riguarda il macro tema della separazione dei poteri, su cui la politica dovrebbe avere il coraggio di aprire un dibattito di tipo costituzionale. Ma anche quello che è fuoriuscito attorno all’ex presidente del Consiglio non è che una fotografia di un album che rischia, pagina per pagina, di rivelarsi sempre uguale a se stesso. Non sta a noi giudicare quante e quali sentenze siano state pilotate o forzate nella storia di questa nazione. Ci limitiamo a dire che il caso Berlusconi rappresenta un nesso storico tra quello che la giustizia è stata durante quella fase e quello che la giustizia si è rivelata essere adesso, con il caso Palamara che immortala un cambiamento che non c’è stato. 
 
Peraltro, volendo fare un’analisi ancor più generosa, si potrebbe dire che, una volta eliminato il collante Berlusconi – quello che ha più o meno tenuto tutti sulle stesse posizioni – certa magistratura sia stata costretta a misurarsi con un altro problema: se stessa. Senza bisogno di ulteriori retroscena, insomma, siamo dinanzi a delle evidenze, che potranno non essere giuridicamente rilevanti, ma che la politica non può far finta di non vedere.