Gli accordi di Abramo un successo per Trump: nei sondaggi per la prima volta è in vantaggio su Biden
17 Settembre 2020
di Vito de Luca
Diciamola tutta: se gli accordi denominati di “Abramo”, tra Israele, Bahrain e Emirati Arabi fossero stati sottoscritti sotto la regia di Obama, i peana del lamestream media si sarebbero sentiti fino agli antipodi di Washington. Diversamente è invece andata sui quotidiani di quelle che ormai sono diventate delle vere e proprie organizzazione giornalistiche, poiché sull’accordo c’è il timbro dell’egida di Trump. Per fortuna, però, è il mondo reale, quello che conta, e non quello dell’infosfera; e nel mondo reale ciò che vale è che l’accordo del 15 settembre scorso, sottoscritto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dal ministro degli Affari esteri del Bahrain Abdullatif bin Rashid Al Zayani e dal ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed bin Sultan Al Nahyan, è sinonimo di pace. Quella pace assegnata preventivamente a Obama – senza verifiche, anche attraverso un Nobèl – mai effettivamente arrivata, giunta ora con Trump, anche se nessun “osanna” alla visione strategica del presidente è arrivato dai think tank e dal mondo accademico. Neanche da Oslo. Ma forse è meglio così, anche perché ciò che interessa è il mondo vero e questo dice che saranno numericamente maggiori i voti reali, quelli introdotti manualmente nelle urne, il 3 novembre, in occasione delle presidenziali Usa, nella sfida tra l’attuale presidente e il democratico Biden, che non, invece, quelli inviati per posta. Con un possibile vantaggio per Trump, visto che i suoi elettori sono più tradizionalisti di quelli del suo sfidante. Oppure forse è vero che, obiettivamente, gli accordi tra i tre paesi del Medio Oriente non meritino l’attenzione che si deve tributare alle grandi svolte epocali? D’Altronde, non è riscontrabile che le basi per il disgelo a cascata nelle relazioni arabo-israeliane siano state gettate già da un decennio di cambiamenti negli equilibri di potere del Medio Oriente, il tutto mentre Israele si rafforzava, la minaccia iraniana persisteva e gli Stati Uniti segnalavano la loro intenzione di ritirarsi? Sì e no. Però è certamente vero che sarebbe stato da sottolineare che l’amministrazione Trump ha avuto il merito di aver intuito e di aver tratte le conseguenze di questi cambiamenti strategici, di averli controllati e di aver messo da parte il fallimentare manuale convenzionale su come si potrebbe ottenere la cordialità arabo-israeliana nel libro dei sogni. La politica di Trump è realpolitik, contro la politica astratta e cerebrale di Obama e di Biden, negli otto anni passati insieme in ticket alla Casa Bianca. Due mandati, tra l’altro, già ben radicati in un isolamento Usa nel mondo, soprattutto dall’Ue, e interessati principalmente alle vicende dell’oceano Pacifico. Gli accordi di Abramo, che prendono il nome dal profeta di ebrei, cristiani e musulmani, sono basati sull’interesse reciproco: win-win, vincono tutti, in puro stile di The Donald. Non è un gioco a somma zero, anche se Trump è stato criticato per una visione transazionale degli affari mondiali, destando talvolta delle preoccupazioni, come in Asia orientale.
Eppure in Medio Oriente il transazionalismo potrebbe essere stato ciò di cui si aveva bisogno. I negoziatori americani hanno cercato per anni di spingere israeliani e palestinesi a rinunciare a qualcosa con un atto di fede e sperando che la pace seguisse, con i soliti nulla di fatto. Ora la pace tra gli stati arabi e Israele ha offerto un vantaggio per tutti. Quello più evidente, oltre alla cooperazione strategica contro il caos regionale iraniano, è economico. I boicottaggi arabi di lunga data contro l’economia più dinamica del Medio Oriente hanno danneggiato gli investimenti e aggravato la povertà della regione. Come ha osservato Michael Singh del Washington Institute, dovrebbero esserci opportunità per il capitale del Golfo di partecipare alle start-up israeliane, rimpiazzando potenzialmente gli investimenti cinesi in Israele che hanno preoccupato gli Stati Uniti. E nonostante la vulgata voglia Trump alle prese eterne con un disprezzo verso gli alleati americani, il risultato di Washington è stato possibile perché il presidente ha sostenuto gli alleati fino in fondo, dando loro fiducia nel sostegno degli Stati Uniti. Ha rifiutato il corteggiamento, fallito, all’Iran, portato avanti da Obama, e si è ritirato dall’accordo nucleare. Ha mostrato anche un certo coraggio nel dare il via libera all’eliminazione del leader dell’aggressione regionale iraniana, Qasem Soleimani. Trump, tra le altre pedine mosse in quell’area, ha anche spostato l’ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme, un gesto che si diceva rappresentasse la campana a morto per la pace: al contrario, ha inviato un segnale preciso il quale dice che Israele non sarà cancellato.
Nessun altro presidente degli Stati Uniti era stato disposto a correre un rischio di tale portata. L’amministrazione Usa è stata anche al fianco dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen e se i sauditi non hanno normalizzato le relazioni con Israele, al termine dell’embargo sui viaggi negli Emirati Arabi Uniti hanno consentito i voli da e per lo stato ebraico, nel concedendo il permesso di passare attraverso lo spazio aereo saudita. Gli accordi di “Abramo” offrono poco ai palestinesi, se si esclude la promessa israeliana di sospendere l’annessione dei territori della Cisgiordania. Per questo, martedì scorso i militanti hanno lanciato dei razzi dalla Striscia di Gaza nel sud di Israele: un segnale di rifiuto che ha stancato ulteriormente gli stati arabi già esausti per la causa palestinese. Ma il più ampio riconoscimento di Israele potrebbe alla fine far sì che i palestinesi si mettano al tavolo in modo realistico. Tutto ciò sarà compreso dall’opinione pubblica? Intanto, per la prima volta, anche se di pochissimo, Trump da ieri è in vantaggio su Biden in un sondaggio nazionale, quello settimanale di Rasmussen: 47% a 46%. Il 3% preferisce invece un altro candidato, mentre il 4% resta indeciso. Si vedrà.