Gli africani iniziano a capire che la Cina non è un modello da seguire
03 Luglio 2009
Continua la penetrazione economica della Cina in Africa. Dopo i prestiti e gli accordi commerciali con Angola, Guinea Bissau, Zambia, Etiopia, Eritrea e Congo, la Cina ha ora concesso un prestito di quasi 1 miliardo di dollari allo Zimbabwe.
Un tempo paese leader nel settore agricolo nel Continente africano, lo Zimbabwe si trova in un periodo di iper-recessione, e ha raggiunto, nell’ultimo anno, un tasso di inflazione record a sei zeri. Alla grave crisi economica che ha colpito il paese, si aggiunge una situazione politica incerta: dallo scorso febbraio, il potere è condiviso dal premier Morgan Tsvangirai, presidente del Movimento per il Cambiamento democratico e dal dittatore Robert Mugabe, ora presidente della Repubblica. Una soluzione di compromesso seguita ad elezioni dal risultato incerto.
Nei giorni scorsi, la necessita di liquidità per rimettere in moto l’economia e rimodernare le infrastrutture del paese ha spinto Tsvangirai a fare un viaggio in Europa e negli Stati Uniti alla ricerca di prestiti. Il viaggio gli è fruttato un finanziamento di 500 milioni di dollari, tra prestiti americani ed europei, condizionato al progresso del paese verso la democrazia. In una conferenza stampa al suo ritorno, il premier ha annunciato ai zimbawesi che per ottenere l’erogazione di ulteriori prestiti il Paese dovrà procedere alle riforme necessarie.
Ma durante l’assenza del premier il ministro delle Finanze Tendai Biti ha ricevuto un’offerta ancora più allettante proveniente dalla Cina: un finanziamento di 950 milioni di dollari, quasi il doppio di quanto offerto da americani ed europei messi insieme, e senza clausole democratiche da rispettare. La generosità dei cinesi non deve sorprendere. Il finanziamento accordato al paese africano porterà indubbiamente dei vantaggi alle loro imprese. Gli appalti per la costruzione di infrastrutture finanziate con i prestiti cinesi ai paesi africani sono quasi sempre vinti da aziende della Repubblica popolare, che molto spesso portano manodopera non specializzata dalla Cina.
Il finanziamento allo Zimbabwe è solo l’ultimo di una lunga serie di aiuti cinesi elargiti al continente africano, anche in paesi governati da dittatori con cui americani e europei non sono disposti a trattare. Gli Stati europei considerano pericoloso investire in questi paesi, a causa dell’instabilità politica e delle frequenti guerre. La Cina, al contrario, vi ha trovato un’importante serbatoio di materie prime e manodopera a basso costo necessario a sostenere il suo sviluppo, nonché un mercato di sbocco per le sue merci.
Iniziata negli anni Novanta, la stagione del commercio sino-africano ha conosciuto una crescita straordinaria, di circa il 700 per cento. La Cina è diventato il terzo principale socio commerciale del continente, dopo Stati Uniti e Francia. I paesi africani coprono attualmente il 30 per cento delle importazioni cinesi di petrolio. Tra loro, il maggiore esportatore è il Sudan, la cui produzione petrolifera è assorbito per il 65 per cento dalla Cina. Ma sulla lista della spesa cinese non c’è solo il petrolio: manganese da Gabon, Sudafrica e Ghana, rame dallo Zambia, ferro dal Sudafrica, cotone da Burkina Faso e Mali e cobalto da Repubblica democratica del Congo, Repubblica del Congo e Sudafrica.
Mentre altri stati si limitano ad acquistare le materie prime in Africa, la Cina si impegna nella costruzione di infrastrutture (ponti, impianti di raffineria, strade, linee elettriche e ferrovie), apportando know how e tecnologie. Così facendo, incidentalmente, porta anche sviluppo agli stati africani. L’investimento in infrastrutture è uno dei presupposti allo sviluppo dell’economia di un Paese ed è un settore in cui gli stati europei o americani investono raramente, almeno in Africa. Ciò spiega il successo delle iniziative cinesi nel continente.
I leader africani apprezzano l’aiuto cinese perché è veloce, efficiente, e non condizionato dal rispetto di clausole democratiche. I governanti africani sono trattati con molto rispetto da Pechino, e invitati regolarmente nella capitale. I leader cinesi parlano loro da pari a pari, facendo leva sui sentimenti di opposizione al capitalismo e presentando la Cina come un modello da seguire per uscire dal sottosviluppo e dall’assoggettamento occidentale.
In Europa, il tema della "invasione cinese" in Africa viene evocato più per la paura di perdere materie prime nella concorrenza con Pechino, che per un reale interesse verso lo sviluppo africano. La crescita dei commerci sino-africani è avvenuta in un momento di vuoto geopolitico, quando all’inizio degli anni Novanta gli europei hanno iniziato gradualmente ad abbandonare il continente nero, sottovalutando l’importanza del mercato africano.
Ora che la Cina ha riempito il vuoto, gli stati europei si rendono conto dell’importanza dell’area. Si moltiplicano le conferenze sull’argomento e le critiche rivolte alla Cina, ma mancano gli strumenti adatti per intervenire incisivamente sulla situazione. E molti politici europei iniziano a pensare che la politica degli investimenti in infrastrutture e il rispetto dei governi africani forse è una strada da seguire, anteponendo gli affari e il realismo politico al rispetto dei diritti umani e dei valori democratici.
Forse però si dovrebbe guardare agli africani stessi che si stanno rapidamente accorgendo delle falle nascoste dietro l’allettante sistema cinese. Sono sempre più numerose le voci che si levano contro la politica di Pechino nel continente, soprattutto per ciò che concerne la sicurezza sul lavoro. Nei cantieri gestiti dai cinesi, dove non esiste il rispetto delle norme e dove gli incidenti sono all’ordine del giorno, sono sempre più frequenti le manifestazioni dei lavoratori contro le imprese cinesi. In Zambia sono sempre più numerosi i lavoratori che chiedono ai cinesi di andarsene.
Anche alcuni leader africani, quelli del Sudafrica in testa, hanno manifestato il loro allarme per la colonizzazione in atto: accusano la Cina di non preoccuparsi dello sviluppo locale e invocano il ritorno dei vecchi colonizzatori europei. L’opinione pubblica africana sta gradualmente abbandonando la chimera della Cina come modello da seguire.