Gli anni Settanta hanno distrutto la scuola e tocca a noi ricostruirla

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Gli anni Settanta hanno distrutto la scuola e tocca a noi ricostruirla

28 Marzo 2010

Degrado, declino, disastro, rovina, decadimento: in questi termini ormai da qualche anno siamo abituati a descrivere la situazione in cui versa il sistema scolastico in Italia e non solo. Grazie ad un contributo che ci arriva oggi dalla Francia, alla lista si aggiunge “disfatta”, ennesima declinazione della stanca retorica della crisi? Non proprio. La disfatta della scuola (pp.296, €18), uscito di recente per Marietti editore, traccia un quadro allarmante dello stato attuale del sistema educativo francese, offrendoci parallelamente un profondo spunto di riflessione, utile ad illuminare situazioni ed esperienze nostrane riguardanti il panorama della scuola italiana ed europea.

Curato da Laurent Lafforgue, insigne matematico con il pallino dell’educazione, e da Liliane Lurçat, esperta riconosciuta dell’istruzione primaria, il testo raccoglie i contributi di un gruppo di insegnanti che convergono nel presentare una diagnosi precisa e circostanziata dei mali della scuola francese, analizzandone rispettivamente origini e cause. Dall’educazione linguistica alla matematica, dalla musica alla letteratura, dalla tecnologia alle scienze della natura, il bilancio emergente dai vari saggi – teorici e generali, alcuni, descrittivi e particolari, altri -, che compongono il volume fa risaltare una formazione complessivamente piena di lacune nelle conoscenze di base, di solito risalenti alla scuola primaria, senza una solida padronanza della lingua materna, delle regole della logica e del ragionamento e di tutte quelle abitudini indispensabili per lo studio.

All’origine del disastro educativo vi sono ragioni storiche e culturali, di tipo pedagogico e istituzionale improntate ai presupposti dell’educazione moderna, profondamente utopica, affermatasi all’insegna della negazione del reale e della rottura con il passato. Gli autori, impegnati nei diversi gradi della formazione, puntano il dito contro le sciagurate politiche di riforma, condotte a partire dagli anni ‘70 in Francia e in Europa, che, colpendo il fondamento stesso dell’insegnamento con il pretesto di rinnovarlo per democratizzarlo, hanno indebolito la scuola del sapere fino a trasformarne la natura e a ridefinirne lo scopo. L’introduzione del pensiero scientista nella pratica pedagogica e delle cosiddette scienze dell’educazione – che una volta proclamatesi scientifiche hanno potuto screditare il metodo di insegnamento tradizionali denunciandoli come artigianali – e la demolizione dei programmi precedenti sostituiti con un approccio metodologico noncurante dei contenuti e ispirato alle dottrine più intransigenti della pedagogia dell’autoapprendimento hanno totalmente capovolto il sistema di istruzione, riducendo alunni e insegnanti a topi da laboratorio e facendo dell’uomo un corpo soggetto a pure leggi, psicologiche e sociologiche, privato della sua stessa libertà. In più, i processi di formazione degli insegnanti hanno via via privilegiato le materie psico-pedagogiche a scapito di quelle disciplinari.

Si è così imposto il costruttivismo, un modello di educazione fondato sull’allievo, sui suoi tempi, sulla libera espressione dei suoi desideri, sull’assenza di disciplina e sul rifiuto dell’autorità, in primis quella del maestro e dunque di una tradizione riconosciuta e canonizzata. Ma un mondo senza maestri, così come un mondo senza padri, è una massa indifferenziata di individui smarriti, schiavi dell’ignoranza e della mediocrità. Un mondo in cui non c’è più posto per le conoscenze oggettive, ma solamente per l’espressione delle opinioni e delle sensazioni. Proibendo qualsiasi insegnamento esplicito, classificato come dogmatico, lo si è sostituito con una pratica che pretende di fare affidamento esclusivamente sull’autonomia, la sperimentazione e la scoperta personale. Ma, afferma uno degli autori, “è come se, per aver voluto rendere gli alunni autonomi troppo presto, si fosse impedito loro di esserlo per sempre”. Questi nuovi metodi di insegnamento si sono imposti, senza tuttavia produrre i risultati sperati. Al contrario: non si è passati dall’autoritarismo all’assenza di autoritarismo, ma ad una nuova forma di autoritarismo.

E qui basta citare alcuni esempi tratti dalla cronaca, nostrana e d’oltralpe: il bullismo, le violenze e gli atti di inciviltà – riportati anche in una testimonianza all’interno del volume – che avvengono tra le mura della scuola. Come in “Entre les murs”, un film controverso, uscito in Italia nel 2008 col titolo “La classe”, che fotografa una scuola della periferia parigina, in cui il protagonista, alle prese con un microcosmo multirazziale fatto di adolescenti ribelli e indomabili, non è un eroe o un illuminato, ma semplicemente un insegnante che si assume la responsabilità di educare, accetta la sfida, se ne prende i rischi, lasciandosi provocare dai ragazzi e guidandoli, così, alla scoperta di se stessi. Come anche il film testimonia, l’assenza di disciplina e di autorità non risolve la questione della violenza e del desiderio di domino, ma la sposta. Un insegnamento che pretende di conferire competenze senza la mediazione delle conoscenze e senza passare attraverso un apprendimento strutturato, ordinato e progressivo di queste ultime, intende programmare gli alunni, non istruirli, e agire direttamente sulla loro personalità per trasformarla, considerandoli dei meccanismi di cui si vuole regolare il funzionamento.

Non a caso, Lafforgue nell’introduzione che apre il volume, paragona, con una provocatoria analogia, l’attuale stato di degrado della scuola francese alla disfatta subita nel 1940 dalle truppe francesi di fronte all’avanzata nazista. Oggi come allora, la debacle è da imputare ad “un indebolimento del carattere e ad una decadenza del pensiero”, spacciati per innovazione e ammantati di scientificità, di cui sono responsabili proprio coloro – esperti governativi, accademici e intellettuali – che avrebbero dovuto farsi custodi della conservazione e della trasmissione della cultura e del sapere. E come nel 1940, il rischio è l’instaurazione della dittatura, un’occupazione, in questo caso, non militare ma culturale e delle coscienze che, nel volume, è adombrata come il pericolo più temibile per il futuro dei giovani. Tutti gli autori si dichiarano a favore di una scuola dell’istruzione, del sapere, dello spirito critico, del gusto intellettuale, dell’amore alla vita e della passione per la conoscenza. Poiché l’educazione è in primo luogo un fatto umano, l’esperienza di persone che interagiscono in una relazione, un impegno umanizzatore nel quale ciascuno è protagonista di un progetto di vita che ha da realizzarsi e, come tale, non può essere ridotta né ad addestramento, facendo privilegiare la logica della tecnica, né ad una logica che renda l’individuo totalmente autosufficiente.

Oggi, invece, in Occidente lo scopo dell’educazione è diventato puramente utilitaristico, equivale ad acquisire delle competenze tecniche ai fini di inserirsi nel mercato del lavoro e avere i mezzi per soddisfare la propria individualità. Non si insegna più per destare e vivificare la coscienza dell’uomo e aprirlo al senso della vita. Ma c’è dell’altro. Identificare le ragioni della crisi profonda che attraversa la scuola oggi, significa anche rendersi conto che la sua origine è di natura filosofica e antropologica in quanto riguarda la concezione dell’uomo e dell’esistenza. Quando la vita non ha senso, come può averne uno l’insegnamento? Per cui non è tanto mancanza di progetto, quanto mancanza di visione e di coscienza. Allora anche la scuola parla il linguaggio del dubbio, del pessimismo, del lamento e della ribellione che nutre il male di vivere dell’uomo di oggi. Per imparare e per insegnare bisogna amare la vita. È prendendo consapevolezza di questo che l’esistenza diventa appassionante e l’uomo scopre in essa un percorso graduale di costruzione di sé in cui riscoprire anche il valore e il bisogno dell’autorità, incarnata da una figura autorevole capace di trasmettere con certezza e fiducia ciò che ha ricevuto.

Questo è il maestro, una guida che insegni a guardare il mondo, a leggerlo e ad attraversarlo, rendendo possibile il pieno sviluppo della persona. Pertanto La disfatta della scuola, malgrado il titolo e il carattere di denuncia, non cede né ad una prospettiva disfattista né alla retorica della crisi, ma intende essere una proposta coraggiosa e appassionata, o meglio la ricerca di un’alternativa concreta, affinché la presa di coscienza collettiva contribuisca al superamento dello stato attuale in cui si dibatte il sistema educativo francese, italiano ed europeo in genere. Così facendo, Lafforgue e gli altri, senza suggerire un nostalgico ritorno al passato, tracciano, anche per noi, delle piste di riflessione e di azione per una rifondazione e una ricostruzione della scuola, restituendole la funzione che le è propria all’interno della società. Non soltanto luogo di socializzazione e di maturazione psicologica, ma soprattutto ambito di conoscenza della realtà che abbia a cuore la trasmissione della vita e quindi della cultura, intesa come una tradizione riconosciuta e canonizzata, ai fini di conferire a tutti gli studenti, adulti del futuro, gli strumenti della libertà di pensare, di creare e di agire.

La scuola oggi va male, ma la crisi può trasformarsi in una sfida e un’opportunità che ci è data per agire con risolutezza e con fiducia. Un insegnante deve impegnarsi anzitutto arrischiando se stesso e, così facendo, essere veicolo della conoscenza, del profondo desiderio di imparare, di sapere e di capire. Educare significa allargare l’orizzonte, apprendere a dirigere lo sguardo, avere senso critico, acquisire criteri e imparare a interpretare. Istruire, educare, insegnare: queste le tre parole chiave per un’istruzione intesa in senso pieno, completata dall’educazione e compiuta nell’insegnamento, che ci introduce al cuore della trasmissione, fondamento della vita.