Gli arabi moderati chiedono a Obama di agire sull’Iran
01 Giugno 2009
Sembra semplice e diretta, là per là, l’idea di puntare tutte le carte sul blocco degli insediamenti e lo sgombero degli outpost: Obama ha insistito nei suoi incontri con Netanyahu e Abu Mazen rovesciando l’impostazione americana. Prima lo sgombero, poi le trattative, poi semmai si riparla dell’Iran, del suo assedio a Israele tramite Hamas e Hezbollah. «Gli Usa chiedono di smantellare gli insediamenti», e poi «Doccia fredda di Israele sulle richieste americane» e poi «Abu Mazen si appoggia a Obama e crea un nesso fra il piano arabo e la pace israelo-palestinese». Questo sarebbe lo stato dell’arte, nell’opinione pubblica. Ma è vero? Solo in parte. E che cosa significa?
Con la guerra degli insediamenti Obama innanzitutto vuole, prima di andare al Cairo per il suo discorso al mondo islamico del 4 giugno, dare un forte segnale che il vento è cambiato, che gli Usa pressano gli israeliani senza tanti complimenti e non ritengono indispensabile un impegno prioritario palestinese per la democrazia e contro il terrorismo.
Se si ricorda cos’è stato lo sgombero di Gaza sotto Ariel Sharon, l’uso dell’esercito nell’estrarre donne, bambini, vecchi, dalla Striscia; se, parlando di outpost, ovvero di ciò che deve essere subito smantellato, si pensa a Amona, nel West Bank, in cui la cronista ha visto 300 feriti fatti dai soldati a cavallo in un paio d’ore, si capisce cos’è uno sgombero. Inoltre, la memoria israeliana immediatamente collega la sofferenza dello sgombero alla sua inutilità per la pace, alla presa del potere di Hamas, il lancio dei missili su Sderot. Dunque, si capisce perché il governo di Netanyahu non sorride all’idea di sgomberare ancora.
Tuttavia, e di questo l’Europa non si è occupata, preferendo lo stereotipo «terribile governo israeliano di destra», ha convocato i quadri del Likud per dire che poiché la priorità assoluta è quella di salvare Israele dall’Iran occorre un rapporto positivo con Obama. Così, si stanno sgomberando 12 outpost in pochi giorni, si preparano la liste di altri 26 luoghi condannati, tutto il Paese discute freneticamente di nuovo del futuro degli insediamenti, alcuni rabbini proibiscono ai soldati di partecipare agli sgomberi, si preparano grandi manifestazioni di destra e di sinistra.
In questa situazione il governo Netanyahu, in cui siedono i nazionalisti insieme a Ehud Barak, ministro socialista, rischia l’infarto. Questo certamente creerebbe uno stallo che non dispiacerebbe ad Abu Mazen, come egli ha dichiarato al Washington Post: Abbas sa ciò che Obama sembra ignorare, cioè che con Hamas alla gola, non c’è accordo possibile fra i Palestinesi e Israele, solo parziali pour parler.
Hamas ha già dichiarato che Abbas non li rappresenta. Abu Mazen, tirato a sinistra, ripete di nuovo che non riconoscerà uno stato ebraico perché questo terrebbe fuori i profughi palestinesi; e questa invece è la condizione di Israele per parlare di "due stati". Abu Mazen ha ricordato che Olmert gli aveva offerto il 98 per cento dei Territori, e anche metà Gerusalemme. E allora perché non aveva accettato, ha chiesto il W. Post? Troppo poco, ha risposto.
Dunque gli «insediamenti» sembrano servire ad Obama per due scopi: mostrare il cambiamento americano; gettare sul tavolo un gioco facile, che piaccia al mondo arabo, e rimandi il gioco vero, quello atomico e terroristico di Pyongyang e Teheran, collegati inesorabilmente nella struttura atomica siriana distrutta da Israele l’anno scorso. Ma attenzione: Mubarak, pure onorato della visita, forse non apprezza, oggi, che si isoli Israele. Esso è l’unico deterrente vero contro l’Iran egemonico che lo minaccia, e anche l’Arabia Saudita sembra vederla così. L’Islam moderato vuole vedere una mossa americana, ma soprattutto sull’Iran.
Tratto da "Il Giornale", 31 maggio 2009