Gli atei che si fanno domande vogliono interrogarsi sull’assenza di Dio

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Gli atei che si fanno domande vogliono interrogarsi sull’assenza di Dio

30 Maggio 2010

Circa due anni e mezzo fa ho scritto un saggio su “The New Republic” in cui criticavo i cosiddetti “nuovi ateisti” (principalmente Sam Harris, Daniel Dennett, Richard Dawkins e Christopher Hitchens). Pochi mesi dopo, ho scritto una critica del film “Religulous” con Bill Maher. In entrambi i casi, mi sono concentrato sulla politica. Ho spiegato che, secondo me, c’era qualcosa di profondamente illiberale nell’intollerante ostilità dei nuovi ateisti nei confronti delle credenze spirituali del resto dei cittadini. E, come s’accorgeranno i lettori del mio prossimo libro, continuo a pensarlo ancora oggi. Ma quanto più leggo e rifletto sugli scritti dei nuovi ateisti, tanto più mi rendo conto che li rifiuto per ragioni più fondamentali.

Per spiegare il perché, lasciatemi dirigere la vostra attenzione su un recente post di Kevin Drum come risposta ad un autorevole saggio del teologo David B. Hart (per una annotazione sulla mia complicata storia con Hart, leggete qui). Il saggio di Hart rigettava i nuovi ateisti in maniera irritata per due principali difetti: in primo luogo perché non si sono mai confrontati (e neanche hanno cercato di capire) le più importanti argomentazioni filosofiche della tradizione teologica cristiana; e poi perché dimostrano una praticamente quasi assente consapevolezza di quanto abbiamo guadagnato (culturalmente e moralmente) con l’avvento della cristianità, e sembrano spensieratamente indifferenti a quanto si perderebbe (ancora, culturalmente e moralmente) se un giorno la cristianità dovesse scomparire dal mondo.

Come risposta, Drum respinge – e si prende gioco – del tentativo di Hart di abbozzare un resoconto su Dio più adeguato e rigoroso di quello che fanno di solito i nuovi ateisti quando affrontano il tema. E ciò porta al nocciolo del mio problema con Drum e con gli altri ateisti. Alla fine del post, Drum risponde agli sforzi di Hart di evidenziare l’influenza positiva della cristianità scrivendo che “limitarsi ad affermare solo che la cristianità è confortante o funzionale – assumendo che questa è la tua opinione – non è sufficiente. Devi dimostrare che è vero. Ma in realtà è proprio ciò che Hart stava cercando di fare in ogni passaggio del saggio che Drum stesso ha rifiutato e beffato. Ma lasciamo stare questo fatto.

Il fatto più deludente è il fallimento di Drum nell’afferrare il punto chiave dello scritto di Hart che, così come l’ho interpretato io, è questo: le frasi “l’inesistenza di Dio è vera” e “l’inesistenza di Dio è buona” sono due affermazioni diverse. Nonostante ciò, i nuovi ateisti le fondono invariabilmente in una sola proposizione. Ma in realtà una forma diversa di ateismo è possibile, legittima, e (secondo Hart) più ammirevole. Chiamiamolo ateismo catastrofico in tributo al suo primo e più grande paladino, Friedrich Nietzsche, che in un passaggio da capogiro della “Genealogia della morale” scrisse: “L’ateismo incondizionato e onesto è la grandiosa catastrofe di 2.000 anni di addestramento alla veridicità che alla fine vieta a se stessa la bugia che comporta credere in Dio”. Per gli ateisti catastrofici, l’assenza di Dio è vera ed è terribile.

Certamente oggi Hart preferirebbe questo tipo di ateismo tragico. Dopotutto, lui è un credente. Ma la questione è che un certo numero di ateisti hanno tenuto d’occhio una posizione simile. Prendete ad esempio il fisico Steven Weinberg. Nel suo libro del 1977 sulle origini dell’universo ("I primi tre minuti"), Weinberg affermava en passant che “quanto più l’universo sembra comprensibile, tanto più sembra senza senso”. Quando alcuni dei suoi colleghi cosmologi obiettarono la scelta delle parole e lo accusarono di esprimere – anche solo implicitamente – una qualche forma di nostalgia teologica per una visione non scientifica del mondo, Weinberg ammise che senza dubbio era nostalgico, “la nostalgia per un mondo nel quale i cieli dichiaravano la gloria di Dio”.

Associando se stesso con il poeta del XIX° secolo, Mattew Arnold – che paragonava il ripiegamento della fede religiosa a dispetto del progresso scientifico con la bassa marea oceanica e sosteneva di sentire nell’aria “una certa tristezza” nel suo “melanconico e lungo ruggito di ritirata” – Weinberg confessava con rimpianto si dubitare che gli scienziati avrebbero mai trovato “nelle leggi della natura un piano preparato da un determinato creatore nel quale gli esseri umani avevano un ruolo speciale”. Quando si tratta di parlare di Dio, infatti, ciò che Weinberg crede che sia vero e ciò che spera che sia vero semplicemente non coincidono.

Nietzsche e Weinberg sono difficilmente gli unici ateisti catastrofici. Il poeta Philip Larkin rifiutava nettamente l’idea di credere in Dio ma riconosceva anche che la vita vissuta nella sfolgorante luce della “sicura estinzione verso la quale stiamo viaggiando” talvolta può essere quasi insopportabile. Playwright Eugene O’Neill pare che abbia pensato che una vita spogliata di qualunque illusione – incluso quella teologica – sarebbe intollerabile, facendoci sprofondare nella disperazione e nella pazzia. E poi c’è anche il caso piuttosto estremo di Woody Allen.

Il fatto non è che l’ateismo deve invariabilmente culminare in una visione tragica del mondo; David Hume, un altro degli eroi ateistici di Hart, sembra aver pensato che era perfettamente possibile vivere una vita decente e felice come non credente. I nuovi ateisti, però, sembrano opporsi fermamente persino all’idea di prendere in considerazione la possibilità che forse ci può essere qualche compensazione nella rottura di una visione teistica del mondo. Invece di esplorare le complesse e scoraggianti sfide legate al tentativo di vivere una vita senza Dio, i nuovi ateisti insistono senza garbo – e spesso senza argomentazioni – sul fatto che l’ateismo è un glorioso e inequivocabile beneficio per l’umanità, sia individualmente che collettivamente.

Non ci sono delusioni plasmate nelle pagine dei loro libri, nessuna lotta o senso di perdita. Ma sono assenti perché gli autori abitano in un mondo totalmente diverso (dal punto di vista spirituale) da quello degli ateisti catastrofici? O forse hanno fatto una scelta strategica per minimizzare le difficoltà dell’inesistenza di Dio sulla chissà se ragionevole assunzione che, in un Paese affamato di un revival spirituale, l’unico ateismo capace di irrompere è quello che promette di fornire così tanto appagamento quanto quello che dà la religione? In qualunque modo, il premeditato disinteresse dei nuovi ateisti alla fine può sembrare quasi comicamente superficiale e poco serio. (Dimostrazione A: il blogger P. Z. Myers, che prende questo tipo di cose in modo davvero buffoneggiante, ridicolizza brutalmente chiunque osi esprimere anche una minima ambivalenza sul suo ateismo). In ogni modo, la cosa importante è rifiutare Dio. Ma per favore, non facciamo finta che la verità dell’inesistenza di Dio necessariamente implichi la sua bontà. Perché non è così che stanno le cose.

Traduzione di Fabrizia B. Maggi

Tratto da The New Republic