Gli attacchi ai cristiani in Kenya e in Nigeria dimostra che l’islam è in guerra

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Gli attacchi ai cristiani in Kenya e in Nigeria dimostra che l’islam è in guerra

07 Luglio 2012

I gravi attentati recentemente compiuti ai danni delle Chiese cristiane in Kenya e Nigeria porta alla luce la difficile situazione che questi due Paesi stanno attraversando. Ma la causa delle tensioni etniche e religiose esplose negli ultimi anni non derivano solo dai delicati equilibri politici interni esistenti ma anche e soprattutto dagli eventi accaduti in Libia e Somalia, i cui contraccolpi hanno finito inevitabilmente per ripercuotersi sulla realtà kenyota e nigeriana.

E proprio dal Kenya si deve partire per comprendere le cause di questa violenza che sta minando la stabilità di queste due nazioni del continente africano. In questo Paese, gli abitanti di fede musulmana sono pari a tre milioni, costituiscono il 10% della popolazione e sono dislocati principalmente nella provincia nord – orientale situata al confine con la Somalia ed in quella costiera adiacente all’Oceano Indiano. Arrivato nell’diciottesimo secolo, l’islam in Kenya è stato per anni marginalizzato, prima dall’amministrazione coloniale britannica e poi dai governi succedutisi dopo il conseguimento dell’indipendenza. Guidati dal partito “Kenya African National Union”(KANU) ed espressione di un regime semi – autoritario, gli esecutivi di Jomo Kenyatta e Daniel Arap Moi avviarono fin dall’inizio, anche con metodi repressivi, un’azione di contenimento dei movimenti islamici radicali, una condotta questa che, però, paradossalmente, finì per convincere anche i musulmani meno praticanti che l’islam rappresentasse un’alternativa al corrotto e dispotico regime di Nairobi.

In questo contesto, si inserirono poi negli anni Ottanta le attività propagandistiche di Teheran e Tripoli. Da un lato il regime iraniano iniziò a distribuire pubblicazioni ed opuscoli allo scopo di rafforzare il ruolo dei movimenti islamici, dall’altro Gheddafi prese invece ad inviare numerosi insegnanti in Kenya nonché ad invitare allo stesso tempo gli studenti kenyoti a recarsi in Libia, arrivando inoltre ad appoggiare nella sua azione destabilizzatoria i movimenti di protesta che nel 1987 sconvolsero il Paese, un gesto al quale il governo di Nairobi rispose chiudendo l’Ambasciata libica ed espellendo tutto il personale diplomatico. Con l’avvio del processo di democratizzazione nei primi anni Novanta e l’arrivo al potere dell’opposizione nel 2002, la situazione è migliorata anche se le tensioni religiose hanno comunque continuato a segnare la vita del Paese.

Gli attentati effettuati nell’Agosto 1998 a Nairobi contro l’Ambasciata americana e nel Novembre 2002 a Mombasa contro un resort turistico e un charter israeliano hanno evidenziato i legami esistenti tra il Council of Imams and Preachers in Kenya” (CIPK) ed “al-Qaeda”, tanto che, stando a quanto riportato da fonti d’intelligence francesi, gli attacchi di Mombasa non potevano essere compiuti senza l’appoggio di gruppi terroristici locali.

Il caos esistente nella vicina Somalia non contribuisce poi certo a migliorare la situazione. Il movimento radicale islamico somalo “al–Shabaab”, al quale si addebitano i recenti attentati contro le chiese cristiane, stando a quanto riportato dall’“International Crisis Group”, avrebbe costruito una rete terroristica nelle regioni al confine tra i due Paesi allo scopo di reclutare giovani musulmani kenyoti per combattere in Somalia e compiere azioni terroristiche.

Ancora più critica è la situazione che presenta la Nigeria, dove da due anni e mezzo il gruppo “Boko Haram” conduce una guerriglia a bassa intensità contro il governo compiendo attentati contro obiettivi governativi e le chiese cristiane. Sorto negli anni Novanta ed attivo nelle regioni nord – orientali il movimento, il cui nome significa “l’educazione occidentale è sacrilega”, risulta collegato alla rete terrorista di “al–Qaeda” e si propone di costituire un califfato nelle zone settentrionali dove risiede la stragrande maggioranza della popolazione islamica nigeriana. Con un popolazione di oltre centosessanta milioni di abitanti, la Nigeria si presenta divisa tra un nord musulmano ed un sud cristiano, una contrapposizione che fin dagli anni Sessanta è stata la causa di forti tensioni etniche. Queste di recente si sono poi ulteriormente accentuate con l’elezione lo scorso anno a Capo dello Stato del cristiano Goodluck Jonathan, la cui vittoria è stata accolta non certo con favore dai musulmani delle zone settentrionali.

Ma non vi è solo la politica alla base delle tensioni. Dotata di ingenti risorse petrolifere, la Nigeria presenta infatti un quadro economico non certo positivo. Nonostante il Paese abbia registrato la terza percentuale di crescita più alta del mondo, il 70% della popolazione continua a vivere in povertà mentre nello Stato settentrionale del Borno, dove “Boko Haram” ha la sua roccaforte, le cifre parlano di un tasso di analfabetismo pari all’83% e dell’assenza di ogni struttura sociale. I proventi petroliferi hanno quindi arricchito solo un ristretto numero di persone lasciando il resto dei nigeriani in una situazione addirittura peggiore rispetto a trent’anni fa. In questo quadro, le azioni terroristiche di “Boko Haram” rischiano così di causare seri contraccolpi all’economia nazionale vista anche la particolare distribuzione geografica delle risorse.

Infatti, se le riserve petrolifere sono concentrate nelle regioni meridionali, la produzione agricola risulta invece localizzata nella parte settentrionale del Paese, così che, come sottolineano gli analisti, un perdurare del rischio terrorismo potrebbe alterare significativamente gli equilibri economici nigeriani. Lo scenario internazionale ha inoltre gettato nuove ombre sul Paese. Secondo l’opinione degli esperti “al-Qaeda”, in difficoltà sullo scacchiere asiatico, starebbe da tempo cercando di rilocalizzarsi proprio in Africa dove cercherebbe di formare un’alleanza tra “Al – Qaeda nel Maghreb Islamico”, i somali di ““al–Shabaab” ed appunto “Boko Haram”, anche se, appare improbabile che possa formarsi un coordinamento tra questi gruppi in quanto ognuno di essi persegue i propri obiettivi ed agisce esclusivamente nelle rispettive realtà locali.

La regione rimane comunque sotto stretta osservazione. E l’instabilità seguita al crollo del regime di Gheddafi in Libia, unita ai recenti eventi accaduti in Mali, dove il “Movimento Nazionale per la Liberazione di Azawad”, accusato di legami con “al-Qaeda” ed espressione della popolazione “Tuareg” le cui rivendicazioni in passato sono state sostenute proprio dal regime libico, ha preso il controllo delle regioni settentrionali del Paese, dimostrano come il rischio di un’infiltrazione fondamentalista rimane tuttora quantomai elevato.