Gli errori di Cameron, le strategie di Sarkozy e il fragile destino dell’Europa
11 Dicembre 2011
Quello che è sucesso non doveva succedere. Il giorno dopo la presa di posizione del governo Cameron di non aderire alla riforma dei Trattati europei sono in molti, soprattutto nella stessa Gran Bretagna, a chiedersi a chi conviene lo strappo britannico a Bruxelles. Molti giornali inglesi, ma lo stesso vice di Cameron, Nick Clegg, si dicono convinti che il leader britannico (pur con motivazioni condivisibili dalla maggior parte dei suo concittadini) abbia tirato troppo la corda e non immaginava che questa potesse rompersi.
In che senso? La strategia di Cameron era quella di ottenere il massimo di vantaggi per il Regno Unito, in particolare sulla tassazione dei servizi finanziari, per poi accettare la modifica dei trattati a 27, ma da posizioni vincenti. D’altronde questa è sempre stata la politica inglese: esserci, ma con una efficace via di fuga. Questa volta invece gli inglesi “non ci sono” e la stampa anglosassone segnala che il risultato, per quanto nel breve termine appaia “patriottico”, è comunque una sconfitta. Se infatti, la nuova Unione Fiscale a 26 (per ora a 23, Svezia, Repubblica Ceca e Ungheria hanno chiesto di consultare i loro parlamenti prima di aderire) non dovesse funzionare e l’euro andasse verso il crollo, questo trascinerebbe con se anche l’economia inglese ormai troppo integrata con quella europea. Se invece dovesse funzionare, il ruolo finanziario della City sarebbe marginalizzato a favore di piazze che operano con denominazione in euro come Parigi, Milano e Francoforte.
Molti osservatori individuano, poi, un’altra questione: che la corda si sia spezzata per espresso volere di Sarkozy. Si sostiene, cioè, che Cameron abbia fatto i conti senza l’oste francese, il cui intento era proprio quello di tenere fuori il Regno Unito. E questo per almeno due motivi: Parigi preferisce da sempre il meccanismo intergovernativo a quello comunitario perché ritiene di avere più strumenti per indirizzarlo a suo piacimento e dunque per primeggiare. Spingere un membro fuori dall’accordo serviva ad impedire la strada della modifica dei trattati e la ricaduta delle nuove regole sotto il controllo delle istituzioni comunitarie. Il secondo motivo riguarda proprio il Regno Unito, alle cui politiche finanziarie Sarkozy attribuisce l’origine dell’odierna crisi, oltre a considerare comunque rischioso e sbagliato il liberismo di fondo di Londra che spesso si salda con i paesi dell’est Europa mettendo la Francia e la sua economia centralizzata in difficoltà.
E’ fallito così, nella notte tra giovedì e venerdì, l’estremo tentativo di mediazione di Van Rompuy che aveva trovato nelle pieghe dei trattati, il cosiddetto “protocollo 12”, che avrebbe permesso con un voto unanime a 27 di avviare l’unione fiscale senza uscire dal quadro comunitario e senza passare per complesse ratifiche parlamentari.
Ora la domanda è: riuscirà l’accordo 17+ a rassicurare i mercati e salvare l’euro? Molti ne dubitano. In primo luogo perché un accordo intergovernativo è più debole di una modifica dei trattati, poi perché richiede ancora una lunga procedura di scrittura e di ratifica destinata ad arrivare fino a marzo con molti ostacoli sul cammino, infine perché, per irremovibile opposizione della Germania, si è scelto di non far scendere in campo l’artiglieria pesante a difesa dell’Euro.
La proposta di Eurobond, seppure non cancellata, è stata messa in un limbo senza prospettive immediate, e la possibilità per la Bce di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza è stata esplicitamente esclusa. L’unica vera misura concreta sono i 200 miliardi da girare al Fmi per interventi di sostegno per paesi in crisi di liquidità. Ma sono pochi e nelle mani di un organismo internazionale e non europeo, il che lascia molte perplessità perché i paesi per quanto a rischio potrebbero non volere l’intervento del Fmi in casa loro. Inoltre segnala molto chiaramente il fatto che se da un lato viene richiesto uno sforzo enorme sul versante del rigore e del pareggio di bilancio, non si vede in compenso il sorgere di una vera solidarietà europea verso i paesi in difficoltà.
Ci sono anche osservatori che apprezzano l’insieme dell’accordo. Molti sostengono (e non solo in Germania) che sarebbe stato un errore costringere la Bce a stampare moneta per svalutare i debiti sovrani e per affrontare acquisti illimitati di titoli in scadenza. Questo avrebbe dimostrato in primo luogo che la Bce non è indipendente e che quando i governi/i politici ne hanno davvero bisogno possono tirare la cavezza della banca nella direzione che vogliono. Questo avrebbe indebolito l’eurotower e in defintiva prodotto il risultato opposto da quello sperato. In secondo luogo, si sostiene, il rigore e il pareggio di bilancio sono comunque obiettivi giusti e necessari. E’ difficile però che gli stati li raggiungano senza la forte pressione dei mercati, la minaccia dello spread e il rischio di default in agguato. Dieci anni di tassi molto bassi grazie all’introduzione dell’euro non hanno portato significativi riduzioni dei debiti sovrani ma una crescita della spesa pubblica. Se le turbolenze dei mercati venissero anestetizzate con l’immissione di muova moneta, a parte i rischi di inflazione, gli stati indebitati evrebbero l’illusione di aver risolto i loro problemi e riprenderebbero a spendere allegramente.
In più, si osserva, l’uscita dell’Inghilterra dalla nuova unione mette fine ad una ipocrisia di fondo che impediva all’Europa quella maggiore integrazione politica di cui ha bisogno anche per difendere la sua moneta. Ora sarà più facile andare verso quegli Stati uniti d’Europa che molti intravedono come una soluzione sostendendo che non ci piò essere una moneta senza uno stato e uno stato senza politica estera, di difesa, fiscale, del lavoro, comune.
Resta qualche dubbio sulla compatibilità tra la nuova unione fiscale e le misure preventive e sanzionatorie che prevede e la democrazia così come la conosciamo. Cosa succederebbe infatti in un paese che, avviandosi verso le elezioni, avesse un partito il cui programma economico si scoprisse in contraddizione con i dettato 17+ e quindi inapplicabile a priori? Bisognerebbe chiedere agli elettori di non votare per quel partito tout court? O costringerlo a cambiare programma? E se tutti i partiti avessero programmi in tutto o in parte in conflitto con il nuovo patto, che si fa? Si sospendono le elezioni? Avremo in futuro solo governi tecnici incaricati esclusivamente di tradurre dall’europeese alla lingua locale i propri programmi? Altri dubbi, altre risposte tentate.