I soldati etiopi stanno lasciando la Somalia come era stato annunciato dal governo di Addis Abeba lo scorso autunno. Due anni fa erano riusciti a liberare Mogadiscio e gran parte del paese dall’Unione delle Corti Islamiche, la coalizione di clan legati al terrorismo islamico internazionale, e in particolare ad al Qaeda, che nei mesi precedenti aveva conquistato la capitale e altre città mettendo in pericolo le istituzioni politiche di transizione create nel settembre del 2004 grazie all’impegno diplomatico internazionale.
Gli abitanti di Mogadiscio hanno incominciato a saccheggiare festanti le basi abbandonate dalle truppe etiopi prima ancora che la polvere sollevata dai loro convogli diretti verso nord si posasse. Ma c’è ben poco da festeggiare e dovrebbero saperlo. Adesso restano infatti a difesa di un governo debole, diviso da insanabili antagonismi di clan, soltanto i 3.400 militari della Amisom, la missione dell’Unione Africana in Somalia, inviati nel 2007 da Uganda e Burundi. Anche se ad essi si aggiungeranno gli 850 militari promessi dalla Nigeria, sembra improbabile che da soli possano fermare e respingere gli ‘shabaab’, le milizie delle Corti Islamiche che, dopo la sconfitta iniziale, hanno ripreso ad avanzare e già si sono impadronite di diverse città tra le quali Merca e Kismayo.
Né pare verosimile che ad assicurare la pace bastino il raddoppio del parlamento (da 275 a 550 deputati) per far posto ai capi clan dell’Ars, l’alleanza di forze antigovernative con cui il governo ha firmato un accordo a Gibuti nell’agosto del 2008, e la formazione di un governo di “unità nazionale”, la formula con cui in Africa i partiti si spartiscono l’apparato statale quando capiscono di non essere in grado di impadronirsene escludendo del tutto gli avversari: d’altra parte, quelle attuali sono già istituzioni che esprimono un progetto di “unità nazionale” come illustra la composizione del parlamento in cui a ciascuno dei quattro clan principali spettano 61 deputati e ai clan minori i 31 rimanenti.
Se a Mogadiscio qualcuno ha accolto con gioia l’inizio del ritiro etiope, i più si preparano al peggio e per alcuni il peggio è già arrivato sotto forma di più aspri combattimenti e di restrizioni radicali alle libertà personali. Nella regione centrale di Galgadul, ad esempio, nelle ultime due settimane gli scontri con armi pesanti tra ‘shabaab’ e milizie locali hanno costretto 50.000 persone, in prevalenza donne e bambini, ad abbandonare il capoluogo Dusa Mareb e la città di Guriel per rifugiarsi nelle campagne circostanti dove aspettano gli sviluppi della guerra, sprovvisti di tutto, senza neanche un tetto sotto il quale ripararsi e privi di assistenza perché le organizzazioni internazionali non sono più in grado di raggiungerli.
Gli sfollati del Galgadul si aggiungono al milione e più di profughi causati negli ultimi due anni dal conflitto che sconvolge la Somalia ormai da 18 anni e che dal 2006 a oggi ha provocato oltre 16.000 morti in prevalenza civili, senza contare le vittime indirette, uccise dagli stenti. Al bilancio vanno aggiunti i quasi 1.000 morti e dispersi, in maggioranza somali, nel tentativo di raggiungere lo Yemen attraversando il Golfo di Aden: un’impresa tentata nel 2008 da non meno di 50.000 persone.
Dove vincono, gli integralisti impongono un’interpretazione rigorosa della legge coranica come dimostra la comparsa dei chador indossati dalle donne e la chiusura di cinematografi e altri locali pubblici: ed è questa la seconda ragione di preoccupazione per la sicurezza della popolazione. Alla fine di ottobre a Kismayo si è avuta la prima condanna a morte per lapidazione. La pena capitale è stata inflitta pubblicamente, nella piazza centrale della città, a una giovane donna ritenuta colpevole di adulterio.
Tra i tanti motivi di allarme, una nota positiva è data dalle dimissioni del presidente Ahmed Abdallahi Yussuf che il 29 dicembre hanno se non altro messo fine a crisi politica durata mesi rafforzando la leadership del primo ministro Nur Assan Hussein, protagonista dei negoziati di Gibuti con l’ala moderata delle forze antigovernative.
Si attendono ora le decisioni dell’Unione Africana e soprattutto delle Nazioni Unite. Da anni si discute dell’invio dei caschi blu, una missione rispetto alla quale negli ultimi mesi il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon si è mostrato sempre più perplesso. A questo proposito, va ricordato che il 7 gennaio è stato annunciato il prossimo trasferimento del comando delle missioni ONU in Somalia da Nairobi, Kenya, a Mogadiscio, dove potrebbe essere creata una “zona verde” sull’esempio di quanto fatto in Irak, a Baghdad.