Gli impostori. La riforma sanitaria nelle mani del lobbista Obama
26 Marzo 2010
Che schifo la politica del do ut des, che vergogna quando nei parlamenti delle libere democrazie penetrano le lobby, con i loro interessi occulti, economici di casta e di consorteria, verrà Obama e farà piazza pulita di questa gomorra, verrà il profeta pieno di ideali per mostrarci la via del cambiamento e fare pulizia di scambi e accordi presi sottobanco. Darà agli americani la possibilità di curarsi gratuitamente, un piano sanitario nazionale al Paese che non l’ha mai avuto, battendosi come un leone contro le grandi e mefistofeliche assicurazioni private.
In effetti Obama è arrivato ma la riforma sanitaria – che adesso torna al voto per dei vizi di forma, tra Camera e Senato, in un balletto senza fine – è stato uno dei più grandi spettacoli di lobbismo, favori fatti e ricambiati, che la Storia americana ricordi, uno spettacolo in cui il Presidente ha mostrato di sapersi trovare perfettamente a suo agio, da protagonista, nel convincere – con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo – quel manipolo di deputati democratici che ancora si opponevano al progetto di rivoluzionare il sistema dell’assistenza sanitaria degli Usa.
Obama, scrive il Wall Street Journal, ha fatto impallidire Lyndon Johnson, mostrando, a distanza di qualche decennio, quanto può pesare una riforma della sanità in termini di manovre politiche e assetti di potere, che vuol dire, per i rappresentati della Camera bassa del Congresso, guadagnare consenso, attraverso la creazione di posti di lavoro, di tecnologie, immobili e servizi: un “sacco” della finanza pubblica stimabile in centinaia di miliardi di dollari e in altrettanti voti sonanti.
Per raggiungere i fatidici 216 “yes” necessari a far passare la legge, il Presidente e la speaker Pelosi avevano bisogno di una manciata di voti, sei o sette, che sono puntualmente arrivati, con il risultato finale di 219 “sì” contro 212 “no” (una trentina di democratici hanno comunque rifiutato di appoggiare il Presidente). Per convincere i deputati più riottosi Obama ha speso ore ed ore di telefonate, 64 fra incontri a porte chiuse, meeting ristretti e allargati, un grande incontro con i deputati dell’Asinello alla vigilia del voto di domenica scorsa. In tutte queste occasioni il Presidente ha dimostrato di conoscere profondamente e fin nei minimi dettagli le posizioni dei suoi colleghi di partito, ha saputo accarezzare il loro ego, evocando lo spettro della crisi e della recessione, il moloch dell’interesse nazionale, riuscendo a dirgli esattamente quello che si aspettavano di ascoltare.
L’esempio più eclatante è stato quello del deputato Dennis Kucinich, ex sindaco di Cleveland, un radical che aveva votato “no” lo scorso novembre, e invece domenica si è espresso a favore della nuova legge, turandosi il naso e dimenticando che il suo progetto sanitario – il Medicare for All Act, assistenza pubblica sovvenzionata da un consistente aumento del prelievo fiscale – è lontano anni luce dall’Obamacare. Eppure Kucinich ha abbozzato, spiegando in conferenza stampa che Obama “ha cambiato la mia mente”. Il Presidente è stato abile a far credere alla sinistra democratica che quello approvato è solo un “primo passo” verso il grande obiettivo inseguito da una vita dai politici come Kucinich: la public option, l’opzione pubblica, l’irruzione della mano statale nel sistema dell’assistenza privatistica nazionale.
In una settimana, il deputato dell’Ohio ha incontrato per quattro volte il Presidente in colloqui riservati, l’ultimo, addirittura, sull’Air Force One, un’occasione che, solo in termini di visibilità mediatica, valeva la pena di cogliere al volo. Si è convinto, Kucinich, che Obama lascerà agli Stati dell’Unione la possibilità di sperimentare delle forme di “mutua” per metà pubblica e per metà privata (il single-payer system), mentre negava categoricamente di aver ricevuto alcun favore personale in cambio del suo voto; solo una promessa, quella della public option, appunto, che però i portavoce e i funzionari della Casa Bianca continuano a smentire con determinazione.
Con la stessa felpata abilità, il Presidente è riuscito ad aggirare il blocco antiabortista che alla Camera si era riunito attorno al deputato del Michigan Bart Stupak, uno dei labor liberals, che a novembre era riuscito a far passare un emendamento alla riforma teso a preservare “la santità della vita” e i diritti dei nascituri; anche Stupak è diventato un flip-flop, che ha prima votato in un modo o poi esattamente all’opposto, quando il Presidente ha accettato di firmare la clausola che impone delle restrizioni federali per l’assistenza sanitaria a chi abortisce (non tutti i “pro-life” sono convinti che andrà a finire in questo modo). Stupak ha lasciato con un palmo di naso il suo collega di partito Daniel Lipinsky, proveniente da Chicago, la città del Presidente. Lipinsky alla fine si è trovato con il cerino in mano, l’unico e solo candidato dell’Illinois a votare contro la riforma.
E così come ha fatto con gli antiabortisti, Obama è riuscito a far passare dalla sua parte anche i deputati democratici della Blue Dog Coalition, i fiscally conservative, come l’ostinato deputato della Florida Allen Boyd (un altro no che è diventato sì), spiegando che la classe media avrà dei benefici fiscali dalla riforma e che d’ora in poi sarà più facile per gli americani scegliersi il proprio medico. Là dove non è riuscito con il suo carisma, l’eloquio e le promesse ad hoc, per aiutare il Presidente si è mossa la potente macchina dei gruppi di pressione democratici che hanno sancito la sua elezione.
E’ accaduto al deputato del distretto di New York, Scott Murphy, che a novembre aveva detto no all’Obamacare (secondo lui la riforma non sarebbe riuscita a tenere i costi della spesa pubblica sotto controllo), e poi è tornato sui suoi passi: uno perché il Presidente gli ha detto che il suo distretto potrebbe godere di un programma pilota nel rimborso di medici e infermieri, e due perché gruppi come il Working Families Party o la Obama’s Organizing for America si sono mossi per tenere Murphy sotto pressione, con tanto di petizioni che hanno anticipato l’incontro di domenica scorsa alla Casa Bianca, quando il democratico della Grande Mela ha finalmente accettato di schierarsi con il Presidente.
Obama ha fatto ricorso, infine, ad un’ultima arma: seguitemi, datemi il vostro voto, e io mi impegnerò personalmente a farvi rieleggere, una proposta che non si può rifiutare e che infatti ha persuaso quei rappresentanti, come la contestata Dina Titus, sfavorita per le prossime elezioni in autunno, o quel John Boccieri, sempre dall’Ohio, che ha spiegato di aver mutato opinione perché la riforma sarà un modo per contenere il deficit, aggiungendo però che “molti dei miei elettori hanno detto che mi toglieranno il voto se darò il mio sì alla riforma” (Boccieri aveva votato per l’emendamento Stupak).
Insomma, il presidente-profeta, l’uomo del cambiamento e della rivoluzione solidale, si è dimostrato un avvocato di lungo corso, un mediatore scaltro e un lobbista mica male. Aveva annunciato una riforma che avrebbe cambiato la sanità degli Stati Uniti e adesso ci ritroviamo con una legge che non è molto diversa dai progetti elaborati da pensatoi conservatori come la Heritage all’inizio degli anni Novanta. I giornali ci hanno spiegato che il progetto passerà alla Storia ma per adesso è ancora fermo alle camere per essere rivotato e rimaneggiato (il filibustering repubblicano evidentemente serve a qualcosa, ma anche i democratici sperano di fare un altro passo nel lungo cammino verso l’opzione pubblica).
Per cui dovremmo chiederci se Obama e i suoi, in fondo, non siano degli impostori, gente abituata a cambiare idea quando gli fa comodo e senza pensarci più di tanto. Che non sarebbe un problema per chi sa che il voto di scambio, in fondo, non è un peccato mortale. Se non fosse che questo Presidente si era presentato come l’arcinemico delle lobby e il risanatore della morale pubblica. Tutto questo, ricordiamolo, sulla pelle degli americani.