Gli inglesi non credono più nella vittoria contro i talebani

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Gli inglesi non credono più nella vittoria contro i talebani

07 Ottobre 2008

"Non vinceremo questa guerra". Le parole del generale Mark Carleton-Smith, comandante del contingente britannico in Afghanistan, risuonano in modo sinistro nelle stanze del Pentagono. Sono una doccia fredda sulle speranze di una normalizzazione afgana, a pochi giorni dalla richiesta degli Stati Uniti di un maggiore impegno da parte della Nato nella guerra al terrorismo. Dichiarazioni che hanno anche fatto da eco alla fuga di notizie su un memorandum in cui un diplomatico francese descriveva la disillusione di Sir Sherard Cowper-Coles, ambasciatore di Sua Maestà a Kabul: "la strategia attuale è condannata al fallimento".

Dalla sua base nella provincia meridionale di Helmand, dove guida gli 8.000 uomini della 16ma Air Assault Brigade, il generale Carleton-Smith ha messo in guardia l’opinione pubblica in patria: "non ci si deve aspettare una vittoria militare decisiva". In buona sostanza è meglio moderare le attese dell’Occidente: "si tratta di portare questa guerra, che non possiamo vincere, a un livello di ribellione gestibile, che non rappresenti una minaccia strategica e che, in futuro, possa essere tenuta sotto controllo dall’esercito afghano". Perché quando le forze della Nato lasceranno il teatro delle operazioni "sarebbe irrealistico pensare che non ci saranno delle bande armate in questa parte del mondo". Parole che, pronunciate da chi vive in prima linea la difficile realtà afgana, rappresentano un’esplicita richiesta di un cambio di strategia: "Se i talebani sono disponibili a sedersi a discutere di un accordo di natura politica, allora è proprio questo il tipo di passo in avanti che può porre fine all’insorgenza. E’ una cosa che non deve metterci a disagio".

Una soluzione, quella ipotizzata dal generale Carleton-Smith, che nasce anche dalla costatazione delle grandi difficoltà incontrate fin qui dalla Nato nel suo tentativo di sconfiggere i Talebani e Al Qaeda. Se è vero, infatti, che l’ufficiale di Sua Maestà si attribuisce il merito di aver "tolto il pungiglione ai talebani per il 2008" (si calcola che quest’anno siano stati uccisi 7 mila guerriglieri), è altrettanto vero che il generale inglese è costretto ad ammettere che le perdite subite in questi mesi dalla sua brigata non sono esigue: 32 soldati caduti in azione e 170 feriti, che hanno portato il totale delle vittime britanniche a 120, dall’inizio della campagna afgana nel 2001.

La scorsa settimana anche i vertici del governo afgano hanno rinnovato il loro auspicio per una soluzione politica che conduca il Paese fuori dalla guerra civile, chiedendo al mullah Omar di farsi vivo per avviare il negoziato. Un’apertura che parte della stampa araba non ha tardato a interpretare come "un’inequivocabile segno della sconfitta dell’Occidente nella sua guerra al terrorismo". Il quotidiano palestinese "Quds al Arabi", per esempio, è uscito con un titolo a nove colonne su "I Talebani vicini alla vittoria decisiva", elencando le ragioni del fallimento della campagna occidentale: "Gli ingenti danni umani ed economici, il quasi totale fallimento del tentativo di controllare il territorio da parte del Pakistan, la debolezza del governo Karzai e il rafforzamento delle milizie do Al Qaeda dopo l’esperienza militare acquisita in Iraq".

Lo scetticismo del generale Carleton-Smith, le speranze di dialogo di Karzai e l’analisi del quotidiano arabo Quds al Arabi, sono tutte posizioni che, al momento, sembrano contrastare con quella del comando americano, che a Kabul prepara un aumento temporaneo delle forze armate (il comandante Usa McKiernan ha chiesto altri 14 mila uomini per rafforzare il suo contingente di 34mila soldati). Difficile prevedere quel che accadrà ma nel 1979 i sovietici invasero l’Afghanistan con il triplo degli uomini della Nato e, dopo dieci anni di sanguinose battaglie, non riuscirono ad avere ragione dei loro avversari. Una storia che non va dimenticata.