Gli intellettuali, la realtà effettuale e i suoi nemici

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Gli intellettuali, la realtà effettuale e i suoi nemici

17 Ottobre 2008

Domenico Felice non è uno studioso qualunque. Docente di Storia della filosofia moderna nel prestigioso Ateneo bolognese, conosce come pochi altri l’illuminismo francese e i classici del pensiero politico moderno. I due tomi sul Dispotismo da lui curati (ed. Liguori 2001 e 2002) testimoniano un lavoro di ricerca e di scavo degno della migliore tradizione di studi italiana. Mi ha meravigliato non poco, pertanto, il suo ironico commento al mio articolo ,”Può il liberalismo fare a meno della comunità politica?” pubblicato su “L’Occidentale” del 5 ottobre. Nello scritto, sottolineavo la differenza cruciale tra la ‘comunità politica’ e il ‘regime politico’ e facevo rilevare, in chiusura, che di queste due dimensioni ineliminabili dell’humana condicio Raymond Aron era stato uno dei pochi filosofi e scienziati politici del nostro tempo ad avere una lucida e disincantata percezione (Per l’Italia si dovrebbero citare, in campo liberale, Benedetto Croce, Nicola Matteucci e qualche altro). Non a caso Machiavelli e il machiavellismo contemporaneo (v. Max Weber) erano ombre sempre presenti nel suo studio parigino. A quelle ombre spesso obiettava che esistono vaste regioni del mondo umano che la ‘Realpolitik’ non è in grado di cogliere ma ai moralisti gratuiti e ai retori dei Valori ricordava che la visione unilaterale dei processi storici è, per l’appunto, parziale, incompleta, ma non campata per aria se poggia su quella che Messer Niccolò chiamava la “realtà effettuale”. Gli spiriti magni del liberalismo ottocentesco, al contrario, non ebbero tale percezione: gli imperativi della ‘comunità politica’ non rientravano nelle loro riflessioni sulle ‘forme di governo’ auspicabili in una società civile moderna e secolarizzata. Tale assenza, però, si vendicava degli immemori sicché, negli scritti “d’occasione”, quando dovevano prendere posizione sulle grandi questioni dell’ora, sulle sfide poste al loro Stato nella competizione internazionale per le sfere d’influenza e per il controllo delle rotte di navigazione e dei traffici commerciali, si ritrovavano sulla stessa linea degli avversari politici. L’esempio di Alexis de Tocqueville mi era sembrato piuttosto significativo: il teorico liberale, forse il più profondo pensatore politico del suo secolo, pur ammirando il regime politico inglese non meno del suo grande predecessore Montesquieu, vedeva nella Gran Bretagna un potenziale nemico di cui occorreva contenere le mire egemoniche sul Mediterraneo (v. gli scritti sull’Algeria) e in altre parti del globo.

Le mie considerazioni non sono piaciute all’amico e collega che mi ha inviato un commento tra l’ironico e lo sconsolato. 

“Se il "contrasto – mi ha obiettato– [è] iscritto nella ‘humana condicio’, tra la materia e lo spirito, tra la ragion di Stato e l’Umanità", allora che fare? Stare alla finestra? Tuffarsi nel mondo e ‘cavalcare’ l’humana condicio? Intervenire ‘chirurgicamente’ sulla materia per metterla in sintonia con lo spirito? Consolare eternamente lo spirito della sfiga della materia? Farsi saltare le cervella, mettendo fine con un colpo solo alla materia e allo spirito? Fare saltare le cervella del prossimo (metaforicamente parlando)? Scrivere inni all’onanismo? ecc. ecc. Il rinvio alla ‘humana condicio’, di sapore squisitamente volterriano, non è il peggio del peggio … per un intellettuale che si è assunto il compito di ‘bacchettare’ i suoi simili e di insegnare loro ‘cosa devono pensare’ ovvero ‘come devono vivere la propria disperata disperazione’? Non è "il" grimaldello per camuffare le nefandezze del mondo? Per far diventare, prima o poi, ‘grandi uomini’ i criminali (Cesare, Cromwell, Robespierre, ecc. fino ai piccoli piccoli, Dio mi perdoni!, quali certi ‘statisti’ di repubbliche fondate sulle puttane e sui puttanieri…)? Machiavelli non è il machiavellismo; Montesquieu, che non separa morale e politica né religione e morale, non si ‘somma’ a nessuno e con nessuno; né Tocqueville è Montesquieu + Machiavelli… et similia. L’Ecclesiaste ‘si salva’ con Dio, noi invece ci dobbiamo ‘tagliare le palle’ e annegarci – mentre i criminali ci sguazzano attorno – nell’"infinita vanità del tutto"? Concludo con un esempio: lo Stato ‘salva’ i bancari, ovvero la comunità ‘salva’ i ladri di professione: è questo il ‘paradigma’ ‘iscritto’ nella humana condicio?”

Lo sfogo di Felice, innanzitutto, mi sembra emblematico di una “docta condicio”, che è forse il marchio indelebile dell’intellettuale militante italiano che non finirà mai di porsi la domanda “che fare?”, né di temere come una sorta di paresi dell’intelligenza lo “stare alla finestra”. Sennonché non è proprio il segno della dignità dell’uomo di scienza il guardarsi intorno? In un passo delle ‘Tusculanae Disputationes’, Cicerone riporta una bellissima metafora di Pitagora volta a dimostrare la superiorità del ‘vedere’ sul ‘fare’.

 “Leonte, stupito dalla novità del nome, chiese chi mai fossero i filosofi e quale differenza ci fosse tra loro e gli altri; Pitagora allora rispose che, secondo il suo modo di vedere, c’era un’analogia tra la vita degli uomini e quel tipo di fiere, che si tengono con grandissimo apparato di giochi davanti a un pubblico che accorre da tutta la Grecia. Infatti, come là c’è chi cerca di ottenere la gloria e la celebrità della corona con l’allenamento atletico, e chi vi giunge con l’intento di fare buoni affari comperando e vendendo, ma c’è anche una categoria di persone, ed è di gran lunga la più nobile, che non cerca né il plauso né il lucro, ma vi si reca solo per vedere e osservare attentamente ciò che succede e come succede, lo stesso vale per noi uomini: come la gente parte da una città per recarsi a una fiera affollata, così noi, giunti in questa vita dopo essere partiti da una vita e da una natura diversa, ci troviamo a servire chi la gloria, chi il denaro; ci sono alcuni, ma sono rari, che senza tenere in alcun conto tutto il resto, si dedicano con passione allo studio della natura, e questi – diceva Pitagora – si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi; e come alla fiera il comportamento più nobile è quello dell’osservatore disinteressato, così nella vita l’indagine e la conoscenza della natura sono attività di gran lunga superiori a tutte le altre”.

 Certo nel mondo antico sapienza e virtù facevano tutt’uno: chi conosce la natura e gli uomini non può che volere il ‘bene’. Per questo, ribaltando la ‘paidèia’ aristocratica, il Socrate platonico dichiarava Odisseo preferibile ad Achille giacché nell’astuzia del primo v’era ancora un tratto umano, mentre nella passionalità del secondo si manifestava solo una natura irruenta e ferina. Oggi non siamo più tanto sicuri dell’endiadi scienza/coscienza: la conoscenza è una risorsa cruciale, che al servizio dei ‘buoni’ può risultare decisiva per il trionfo di una causa giusta, al servizio del fanatismo religioso o della criminalità organizzata, può centuplicare il danno inflitto ai nostri simili. Ci si sente più sicuri con un Ahmadinejad senza fisici atomici e, in genere, sarebbe consigliabile non dare alcuna istruzione ad un affiliato irrecuperabile di Cosa Nostra.

 Resta, però, il dovere dei professionisti della ricerca di mettere alla porta i “giudizi di valore”.

Montesquieu, scrive Felice, “non separa morale e politica né religione e morale”: ma che significa questa frase? Che si rendeva ben conto del ruolo oggettivo che la morale e la religione hanno nei consorzi umani? Era il suo mestiere se davvero, come sostiene Aron, ne ‘Le tappe del pensiero sociologico’, merita un posto tra i fondatori della scienza sociale contemporanea. Ma la frase potrebbe significare, invece, che, per Montesquieu, la politica deve trovare i suoi limiti nella morale e nella religione. Un intendimento nobilissimo che, però, a rigore, non ha nulla a che fare con lo ‘studio della natura’ della politica e che non rientra certo tra i doveri di chi riceve uno stipendio dallo Stato per insegnare “il metodo delle scienze storico-sociali” agli allievi.

 “Ma neppure da parte degli insegnanti la politica si addice all’aula”, scriveva Max Weber ne ‘La scienza come professione’ novant’anni fa: “Meno che mai, quando l’insegnante si occupa di politica dal punto di vista scientifico. Giacché l’atteggiamento politico nella pratica, e l’analisi scientifica di formazioni e partiti politici, sono due cose diverse. Ma per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene? Premetto che diversi tra i miei stimatissimi colleghi sono del parere che una siffatta discrezione non sia attuabile e che se anche lo fosse sarebbe follia pretenderla. Ora a nessuno può dimostrarsi scientificamente quale sia il suo dovere di professore universitario. Da lui si può pretendere soltanto la probità intellettuale, per cui sappia comprendere come la verifica dei fatti, dei rapporti matematici o logici e dell’interna struttura delle creazioni dello spirito da una parte, e dall’altra la risposta alla questione intorno al valore della civiltà e dei suoi singoli contenuti–e quindi intorno al modo in cui si debba agire nell’ ambito della comunità civile e delle società politiche– siano due problemi assolutamente eterogenei”.

 La tradizione occidentale del realismo politico, inaugurata da Niccolò Machiavelli, ci ha insegnato appunto “la verifica dei fatti”, a confrontarci con le cose dure come il marmo e ‘in primis’ con l’imperativo comunitario ovvero con la realtà insopprimibile di un ‘corpo’, lo Stato (quale che sia la sua ampiezza e le forme istituzionali) che, prima di ogni altra incombenza , ha quella di provvedere alla sua sopravvivenza, alla sua forza, alla sua ‘buona salute’–giacché senza di esse non sono concepibili né libertà, né schiavitù, né progresso, né conservazione, né destra, né sinistra.

 Può capitare, ed anzi è il segno della drammaticità della ‘humana condicio’, che la fedeltà alla nazione entri talora in contraddizione con i valori che stanno oltre la vita e lo Stato: lo avvertirono in maniera lacerante, nel corso della seconda guerra mondiale, spiriti altissimi come Federico Chabod costretti ad augurarsi la sconfitta della patria in vista della preservazione di beni più elevati! “Di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è affare di coscienza”aveva ammonito don Benedetto.

“ L’Ecclesiaste ‘si salva’ con Dio,–commenta amaramente Felice– noi invece ci dobbiamo ‘tagliare le palle’ e annegarci – mentre i criminali ci sguazzano attorno– nell’"infinita vanità del tutto"? Concludo con un esempio: lo Stato ‘salva’ i bancari, ovvero la comunità ‘salva’ i ladri di professione: è questo il ‘paradigma’ ‘iscritto’ nella humana condicio?” La fissa dello studioso è sempre la stessa: quid agendumí? Rispondo provocatoriamente che per quanti frequentano i laboratori della ricerca e non le segreterie dei partiti o dei sindacati, la risposta non è difficile e non comporta affatto il dovere di farsi emuli di Abelardo. Intanto il primo dovere del ‘politologue’ è definire i termini che impiega, a cominciare da ‘criminali’. In Italia, come dappertutto, ce ne sono tanti e di diversa specie: c’è la criminalità del politico che svende per quattro lire l’Alfa Romeo e quella di chi costringe gli istituti bancari amici a sostenere imprenditori che non danno alcuna garanzia. Al di là di tutto questo opera un ‘sistema’ perverso che per cinquant’anni ha consentito la colonizzazione della ‘società civile’ da parte della ‘classe politica’ consolidando prassi tutt’altro che ’virtuose’: Luca Ricolfi, che ne illustra con cifre e dati gli ‘effetti perversi’, fa ‘inni all’onanismo’o segue una sua etica particolare, quella sobria della scienza, così estranea ai sensazionalismi giornalistici di Gian Antonio Stella e ai savonarolismi improbabili di Marco Travaglio?

L’’humana condicio’, si domanda, ‘perturbato e commosso’ Felice,”non è "il" grimaldello per camuffare le nefandezze del mondo? Per far diventare, prima o poi, ‘grandi uomini’ i criminali (Cesare, Cromwell, Robespierre, ecc. fino ai piccoli piccoli, Dio mi perdoni!, quali certi ‘statisti’ di repubbliche fondate sulle puttane e sui puttanieri…)?” Sinceramente non riesco a capire perché far rilevare la centralità (e ineliminabilità non morale ma oggettiva..) della comunità-Stato contenga ‘in nuce’ l’apologia dei grandi dittatori. Certo questi ultimi afferrano il timone del governo quando i quadri istituzionali della convivenza non riescono più a tenere i popoli ‘uniti, in pace et in fede’. Luciano Canfora, un antichista lontano dal liberalismo, lo ha spiegato assai bene nel caso di Giulio Cesare e Giuseppe Maranini, un geniale storico delle istituzioni, lo fece meglio ancora, in un libro scritto negli anni del regime fascista in cui si metteva a fuoco la natura del giacobinismo. Non sono i Cesari a creare la crisi della comunità ma è la crisi della comunità a suscitare i Cesari, la cui opera talora è proprio quella di porre fine all’insicurezza totale e di ristabilire l’ordine e la legge.

 Un vero liberale condividerà sempre quanto scriveva Thomas Jefferson in una lettera del 1785 a James Madison “Malo periculosam libertatem quam quietam servitutem “(Tacito): è la messa di Croce che vale più di Parigi. Se responsabile, però, non può permettersi di snobbare lo scienziato politico che gli mostra come una comunità non sopporti a lungo la “periculosam libertatem” e come, se gli uomini e le istituzioni della ‘società aperta’ non riescono a proteggere i comuni cittadini dal ‘periculum’, alla bisogna finiranno per provvedere gli uomini e i sistemi della ‘società chiusa’.

 “Un intellettuale che si è assunto il compito di ‘bacchettare’ i suoi simili e di insegnare loro ‘cosa devono pensare’ ovvero ‘come devono vivere la propria disperata disperazione’“ è assai probabile che diventi un girotondino in servizio permanente effettivo ma, di sicuro, non sarà di alcun aiuto a chi vuol conoscere il mondo per lasciarlo un po’ meglio di quanto non l’abbia trovato.