Gli iPhone, la globalizzazione e Trump
19 Novembre 2016
Ci sarà qualche produzione che ritornerà sul suolo Americano, come richiesto dal Presidente Eletto Trump? Pare possibile che la prima sia l’iPhone. Ne sta discutendo la Apple con la ditta che produce fisicamente il telefono, la Pegatron, di Taiwan. Che, però, ha già fatto uno studio in materia ed i costi sarebbero insostenibili. Non percorribile appare, nemmeno, l’ipotesi di ridurre la qualità dei materiali.
La mission aziendale di Apple, infatti, è stata fondata sulla qualità senza compromessi. Quindi ridurre il livello dei loro prodotti per dare un lavoro a dei disoccupati in Wisconsin non appare una priorità dell’azienda. Questo non dovrebbe sorprendere nessuno, la globalizzazione non è un processo reversibile. Nonostante l’entusiasmo, ad esempio, è vero che la Ford non aprirà una fabbrica di Suv in Messico, come ha dichiarato Trump. Ma non lo farà perché non aveva mai inteso farlo. Altri due stabilimenti apriranno. All’estero. Non certo nella Rust Belt.
Questo mix di speranze, non notizie e rumors si inserisce nel contesto che ha visto la vittoria del candidato Repubblicano. Riportare la produzione in America è il sogno di larghe aprti della popolazione, soprattutto quella che vive lontano dalle città e non gode dei vantaggi dell’economia 2.0 o dell’industria 3.0 o 4.0. Il sogno di riavere la manifattura si scontra, però, con meccanismi ormai troppo radicati.
La stessa esistenza, ed esigenza, del salario minimo uccide questa possibilità come lo uccide tutto il peso legato al costo delle assicurazioni sanitarie. In sostanza, si può avere la produzione manifatturiera, si può avere lo stato sociale, ma non si possono avere entrambe. Questo lo sta scoprendo Trump. Come potrà, se potrà, liberarsi da questa legge bronzea dell’economia è ancora tutto da definire.