Gli italiani non si tirano indietro quando c’è da battersi contro i talebani

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Gli italiani non si tirano indietro quando c’è da battersi contro i talebani

04 Dicembre 2008

Sono passati tre anni dall’ultimo volta che eravamo stati a Herat. Allora la situazione era nel complesso tranquilla. I talebani avevano da poco ricominciato a mettere piede nelle loro storiche roccaforti del sud del Paese. L’ovest restava una sostanziale oasi di tranquillità. Certo, c’era il problema dei contrabbandieri e dei trafficanti, ma niente di paragonabile alla situazione di oggi.  

Che le cose siano cambiate lo avverti già dai discorsi dei nostri militari sul C-130 che dalla base militare di Al Dafra, negli Emirati, ci porta direttamente ad Herat. I ragazzi tornano in missione dopo la licenza e percepisci subito che la tensione c’è. Parlano i loro occhi. Ci sono gli alpini della Julia, che adesso ha il comando della regione ovest, i bersaglieri e i barbuti uomini invisibili della Task Force 45. La nostra unità semi-segreta composta dagli incursori del Comsubin e dalle forze speciali dell’Esercito, i parà del Col Moschin e i Rangers Alpini, che opera nel settore di Farah: quello più caldo della regione ovest. Laggiù la presenza dei talebani è forte.

Quelle che all’inizio erano solo percezioni si trasformano ben presto in realtà al nostro arrivo a Camp Arena (sede del comando ovest presso l’aeroporto di Herat). Due giorni prima, a pochi metri dalla base, un kamikaze si era lanciato contro un veicolo americano. Per fortuna solo pochi feriti. Quella dei kamikaze è la minaccia che più preoccupa il nostro comando. Molto spesso si tratta di attentatori che giungono direttamente dal Pakistan. Difficile che siano gli afgani a falsi saltare in aria. Del resto è ben nota la storica avversione della cultura locale nei confronti del suicidio. Se sono afgani, si tratta di persone drogate o con problemi mentali oppure in qualche modo costretti al martirio.

Una cellula suicida è composta dall’attentatore più tre o quattro elementi locali di appoggio. Una volta preparata la vettura, questa inizia ad andare in giro finchè non individua un bersaglio su cui potersi lanciare. Lungo la strada che da Camp Arena porta al centro di Herat, la famigerata Ring Road, sono stati compiuti negli ultimi due anni diversi attentati. E solo la prontezza dei conduttori e la protezione dei mezzi ha permesso di evitare bilanci più tragici. L’ultima autobomba che ha colpito i militari italiani è stata quella del 18 ottobre scorso. Sempre sulla Ring Road, sempre con la stessa tecnica: la macchina, ferma sul ciglio della strada, si lancia contro un convoglio di passaggio. Anche in questo caso abilità del conduttore e protezione hanno impedito che fosse strage. Ma a volte è capitato anche che l’attentatore suicida fosse a piedi e che indossasse la classica cintura esplosiva o un più artigianale contenitore di esplosivo liquido.

E certo, percorrere la Ring Road fino al centro di Herat non è la cosa più piacevole del mondo. Ma il PRT italiano – il team civile/militare che porta avanti numerosi progetti di ricostruzione nell’area – è proprio in centro e alternative alla “Ring” non ce ne sono. Quando visitiamo il PRT, dunque, tocca anche a noi fare da bersaglio. L’aria che tira si capisce dal volto dei ragazzi del San Marco che ci fanno da scorta e che guidano i mezzi. Un mix di tensione ed attenzione che, immediatamente, ci contagia. Per fortuna va tutto bene. La sera, al rientro alla base, si tira un sospiro di sollievo e capiamo meglio la vita di questi ragazzi che, la Ring Road, la devono percorrere tutti i giorni.

Ma la minaccia non sono solo i kamikaze. Ci sono i razzi – che ogni tanto cadono nel perimetro di Camp Arena – per fortuna senza far danni visto che si tratta di vecchie Katiuscia riadattate e mai davvero precise, ma ci sono anche gli ordigni rudimentali piazzati sulle strade e, più in generale, una guerriglia che ultimamente sembra piuttosto attiva in tutta l’area. Il generale Serra, comandante della Julia e della regione ovest, quando ci accoglie nel suo ufficio è piuttosto chiaro. Una chiarezza, mista a sobrietà, tutta alpina: “Il nostro è un approccio comprensivo ma quando c’è da usare la forza lo facciamo con la necessaria determinazione”.

E’ capitato più volte da quando la Julia è ad Herat. Come il 19 ottobre scorso, quando  gli alpini della compagnia “Potente” si sono aperti la strada per la base avanzata di Bala Murghab con la forza. Gli alpini dovevano dare il cambio ai compagni dei bersaglieri impegnati da 50 giorni nel presidio della base. Gli “insorgenti” avevano pensato bene di impedire la cosa creando lungo l’itinerario uno sbarramento fatto di trappole esplosive e postazioni interrate dalle quali partivano gragnuole di RPG e armi automatiche. I nostri hanno risposto colpo su colpo ed alla fine si sono aperti la strada per Bala Murghab.

In casi come questo è fondamentale l’appoggio dal cielo fornito dai nostri elicotteri d’attacco Mangusta. Gli elicotteri – anch’essi di stanza presso l’aeroporto di Herat con la JATF (Joint Air Task Force), assieme ai Chinoook, ai velivoli non pilotati Predator e agli aerei da trasporto tattico C-27J – hanno principalmente compiti di ricognizione e scorta, ma in emergenza possono intervenire a supporto delle truppe a terra. E lo hanno fatto diverse volte negli ultimi due mesi. L’ultima, è stata nella notte tra il 28 e 29 novembre. In quella occasione militari italiani e della coalizione sono intervenuti in soccorso a un convoglio di forze afgane attaccato da oltre 300 miliziani a soli 5 km da Bala Murghab. I Mangusta, accompagnati dalle cannoniere americane A-10, hanno permesso di neutralizzare i mezzi caduti nelle mani degli insorgenti e di coprire tutte le fasi di soccorso ed evacuazione medica dei soldati afgani feriti. Secondo il vicegovernatore della provincia di Baghdis, Abdul Ghani Sabri, sul campo sarebbero rimasti 13 soldati afgani e sette guerriglieri. Difficile però confermare le stime.

Così scorre la vita nella regione ovest dell’Afghanistan. Resta un grande punto interrogativo sulla natura di quelli che in tutti i briefing NATO vengono definiti “insorgenti”, “militanti” eccetera. I dubbi ce li toglie lo stesso generale Serra: “Per una regione come quella ovest l’equazione ‘insorgenza uguale talebani’ è molto più sfumata. Sarebbe più corretto parlare di un insieme di soggetti – signori della guerra, trafficanti o gruppi effettivamente legati ai talebani – che si oppongono a qualsiasi legge che non sia la loro”. La nostra percezione, corroborata anche da altre fonti, collima con le parole del generale Serra. Se in alcune aree della regione – come la provincia di Farah, il distretto di Shindand, estrema propaggine meridionale della provincia di Herat, o il distretto di Bala Murghab, nella provincia settentrionale di Baghdis – esiste un fenomeno che davvero può essere ricollegato ai talebani, anche perché le suddette sono tutte zone a forte presenza pashtun, nel resto della regione il quadro cambia e s’incontrano i soggetti più disparati. Trafficanti, semplici criminali, ras, in generale tutti elementi che non digeriscono il fatto che qualcuno controlli legittimamente al posto loro il territorio e ne danneggi i traffici e le attività. Nulla di nuovo, un classico della storia afgana.

Nella regione ovest ci sono del resto le due principali rotte del traffico di droga di tutto l’Afghanistan: quella che corre verso l’Iran, ad ovest, e quella verso il Turkmenistan, a nord. “La droga esce dall’Afghanistan lungo queste rotte e i proventi alimentano il commercio di armi”, spiega il generale Serra. Dunque, soldi e armi in abbondanza. Tutti, da queste parti, hanno la loro milizia, il loro piccolo esercito privato. Manovalanza che serve a taglieggiare, scortare i convogli di armi e droga, proteggere i campi di papaveri di oppio, eccetera. Prendiamo l’ex sindaco di Herat, Ghullam Yahya Akbari. Un ras locale che, dopo essere stato trombato dal presidente Karzai, si è messo a fargli la guerra. Si vanta di avere 20 basi nella provincia di Herat e ha annunciato la jihad contro Karzai e le forze ISAF. Ovviamente lo ha fatto davanti alle puntuali telecamere di Al Jaezira.

Per garantirsi un maggiore controllo di tutta l’area, negli ultimi mesi nel territorio sotto la responsabilità del comando ovest sono state create le due basi avanzate di Bala Murghab e Delaram, le cosiddette FOB (Forward Operating Base). La FOB di Bala Murghab è situata nell’omonimo distretto nella provincia di settentrionale di Baghdis. Siamo nei pressi del confine con il Turkmenistan. La zona è sensibile perché qui è presente un’enclave pashtun, in un’area a forte presenza belucha, e perché siamo al crocevia di una delle principali rotte dei traffici nella regione. E che la base dia noia a qualcuno lo dimostra il fatto che in questi mesi gli attacchi sono stati diversi.

Generalmente i guerriglieri prediligono la notte: sparano con armi automatiche ed RPG accompagnati da tiri di mortai, roba ex-sovietica da 82 mm. Ma è capitato anche di giorno. I nostri non si tirano indietro e rispondono. Delaram invece è nell’estremo sud della provincia di Farah. Da lì si controllano gli accessi alla regione ovest dai due bastioni talebani delle province meridionali di Helmand e Nimroz. Quest’ultima è un’area ancora del tutto fuori controllo e né ISAF né Enduring Freedom sono presenti in loco. Un bel problema che finisce inevitabilmente per ripercuotersi, appunto, anche sulla confinante provincia di Farah. Probabilmente le nuove brigate del surge afgano annunciato da Obama verranno dispiegate  proprio a Nimroz.

Per i nostri uomini il turno di servizio alle FOB dura 50 giorni. Un periodo lunghissimo fatto di stress, polvere e privazioni. Vissuto, fianco a fianco, con militari americani ed afgani. Il terreno è difficile. Qua si ha la sensazione di essere in prima linea. Per raggiungere via terra Bal Murghab da Herat occorrono due giorni. Per questa ragione i rifornimenti avvengono soprattutto via elicottero. Addirittura gli americani riforniscono i loro con lanci di paracadute. Molto meglio la situazione di Delaram, che può essere raggiunta via terra in “sole” sette/ore.

Questo è l’Afghanistan. Qualcuno ha detto che una volta che ci vai ci tornerai per sempre. Qualcun altro ha giurato di non tornarci mai più, divorato dal fascino di questo straordinario Paese. Qui sono tramontati i sogni imperiali di più nazioni. Gli sciuravì, i sovietici, ne uscirono con le ossa rotte. Oggi la NATO sembra destinata a seguire le stesse orme dell’Armata Rossa. Ma forse riuscirà a vincere. Noi i pozzi li costruiamo non li avveleniamo.