Gli operai scioperano e Pechino censura le proteste

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Gli operai scioperano e Pechino censura le proteste

04 Giugno 2010

Dopo anni di lavoro durissimo, fatto di dodici ore al giorno per sei giorni a settimana e una paga risicata, gli operai cinesi della Honda hanno deciso di incrociare le braccia. Il management del colosso giapponese è stato costretto a chiudere due grossi impianti nella provincia meridionale del Guandong e ancora non è riuscito a trovare risposte esaustive a chi chiede migliori condizioni di lavoro e un aumento di stipendio. La maggior parte degli scioperanti sono ventenni, appena usciti dalle scuole superiori. Il resto della forza lavoro delle fabbriche della Honda è composto sopra tutto da stagisti, studenti delle scuole professionali ai quali è richiesto un periodo di lavoro per ottenere il diploma, pagati 900 yuan al mese, circa 108 euro. Mentre gli operai più qualificati ricevono 1380 yuan al mese, più o meno 166 euro. Questi giovani rappresentano la nuova generazione di lavoratori, che non ha vissuto gli scontri di Piazza Tienanmen nel 1989 e che non chiede più democrazia, bensì salari maggiori e diritti sul lavoro.  

Nella Cina comunista e turbo industriale di oggi la principale contraddizione è la sperequazione economica. Ci sono ancora pochi super ricchi nelle grandi metropoli come Pechino, la stessa Canton, capoluogo del Guandong e la città di Kunming, capoluogo della provincia orientale dello Yunnan. Secondo la rivista americana Forbes, nell’elenco World’s billionaires del 2009 la Cina si piazza subito dopo gli Stati Uniti per numero di paperoni nel Paese. Sebbene il distacco sia ancora notevole (i miliardari cinesi sono “soltanto” 64 rispetto ai 403 americani), la scalata del Dragone, in quest’ultimi anni, è stata davvero impressionante. Ma nelle campagne e nelle periferie ci sono ancora tanti poveri. Inoltre, a Pechino l’inflazione continua a crescere: ad aprile ha raggiunto il 2,8 per cento, il massimo aumento dall’ottobre del 2008. Secondo il professor Dong Tao, esperto del Credit Suisse, l’inflazione salirà ancora fino a superare il 5 per cento nella seconda metà del 2010. Un dato – definito “accettabile” dagli esperti – che non preoccupa ma neppure rassicura Pechino, insieme all’aumento dei costi immobiliari e alla crisi della borsa di Shangai. 

Il Guandong è il cuore della Cina meridionale, una delle aree economiche più  dinamiche del Paese, insieme all’isola di Hainan. E’ qui che arrivano ogni anno giovani da tutte le regioni cinesi. Hanno una laurea in tasca e portano con sé il sogno di un futuro migliore e la voglia matta di occidentalizzarsi, nonostante il regime proibisca Facebook e censuri i dissidenti. Lavorando in multinazionali straniere, questi giovani si avvicinano agli stili di vita, alle abitudini e ai guadagni occidentali, sino ad arrivare al punto di non accettare più la propria condizione. Ecco perché i mille e novecento lavoratori della Honda sono scesi in piazza, forse per assaporare il gusto della libertà e vivere quel benessere che vedono intorno a loro. Giornali e televisioni locali hanno scritto e raccontato degli scioperanti per i primi due giorni delle manifestazioni, anche facendo leva sul sentimento anti giapponese, mai del tutto scomparso dalla seconda guerra mondiale. Poco dopo, però, è arrivato il contrordine dalle autorità di Pechino. Articoli, immagini, servizi sono spariti e dei ventenni che protestano davanti all’entrata dei due stabilimenti non è rimasto più nulla. Il regime teme l’effetto domino di questo sciopero, che rischia di mettere in crisi un modello che per ora ha funzionato bene, basato su prezzi ultracompetitivi grazie al bassissimo costo del lavoro. Secondo alcune fonti, neanche la polizia è intervenuta. Si vuole evitare che la rabbia sociale dilaghi per la Cina. Si teme che, in poco tempo, possano esplodere tutte le contraddizioni di un Paese dove l’economia cresce frenetica, a ritmi sostenuti, mentre il reddito della maggior parte della popolazione resta fermo a livelli appena di sufficienza.

Fra l’altro, fino a qualche giorno fa la notizia più letta nei media cinesi e internazionali riguardava la serie continua di suicidi che ha accomunato oltre dodici operai della Foxconn, l’industria guidata da Terry Gou, il terzo uomo più ricco di Taiwan. La Foxconn è un’enorme azienda che produce componenti elettronici, rifornisce giganti come Apple, Dell e Nokia e in Cina possiede importanti stabilimenti nella città di Shenzen, proprio nella provincia del Guandong. La notizia è trapelata dopo l’ultimo tentativo di suicidio, quello di un operaio ventitreenne, assunto soltanto da pochi mesi. Tutte le vittime erano giovani provenienti dalla campagna povera e rurale, cercavano una vita migliore per se stessi e per le proprie famiglie, che ora, private della loro principale fonte di sostentamento, insorgono e chiedono risarcimenti alla Foxconn. Secondo l’azienda, l’ondata di suicidi tra gli operai – tredici tentativi e undici morti soltanto nel 2010 – è semplicemente l’esito di problemi sociali e questioni personali. Ma le alienanti condizioni di lavoro cui gli operai erano (e sono ancora) sottoposti non possono non far riflettere parenti, media e gran parte della popolazione cinese. I turni di dodici ore consecutive con 30 minuti per mangiare e dieci per andare al bagno, il divieto di parlare con gli altri operai e di discutere gli ordini dei superiori e la disciplina quasi militare anche a mensa e nei dormitori hanno giocato sicuramente un ruolo determinante nella catena dei suicidi degli ultimi mesi. Qualche giorno fa Terry Gou si è recato nello stabilimento di Shenzen per cercare di risollevare l’immagine della compagnia e illustrare ai giornalisti le nuove condizioni della forza lavoro, che prevedono fra l’altro l’aumento del 20 per cento sulla busta paga degli operai. Ma alcuni dipendenti hanno presentato alla stampa una lettera, scritta dal management dell’azienda, secondo la quale gli operai avrebbero dovuto impegnarsi a non suicidarsi e a limitare le richieste di risarcimento dei parenti. Un colpo durissimo per Terry che è stato costretto a scusarsi pubblicamente e a ritirare subito il documento.

La situazione non è facile. Il rischio che la rabbia sociale dilaghi c’è, Pechino lo sa e ha deciso di ricorrere ai ripari. La scorsa settimana, il governo ha inviato presso la Foxconn un gruppo guidato dal ministro per le Risorse umane e la Sicurezza sociale, Yin Weimin, per accertare le cause dei suicidi. Il municipio di Shenzen ha inviato un team ispettivo, mentre il sindacato unitario cinese ha proposto di creare uffici locali per affrontare il disagio dei giovani operai. Nonostante ciò, nessuno ha ancora parlato di rivedere condizioni e orari di lavoro. Le autorità tacciono, i media hanno abbassato i toni dei reportage sugli scioperi nel Guandong e i casi di suicidio della Foxconn. Ma Pechino dovrà capire presto che la crescita del mercato interno non può più essere legata allo sfruttamento selvaggio degli operai e a condizioni di lavoro infami e alienanti.