Gli ‘scontri di Roma’ danno la misura di come la politica poggi su sabbie mobili
18 Ottobre 2011
Per Giorgio Fedel, lo studioso prematuramente scomparso qualche mese fa, che ha analizzato i simboli e il linguaggio politico, sine ira ac studio, con lo spirito dello scienziato in laboratorio, la giornata romana del 16 ottobre sarebbe stata una miniera inesauribile di materiali relativi alle funzioni della violenza, alla legittimità, alla tenuta delle istituzioni, allo scambio politico etc. Pensando alle nostre frequenti conversazioni su questi temi, mi provo a mettere a fuoco, con weberiana Wertfreiheit, libertà di giudizio, alcuni dati inoppugnabili che sono emersi sia nei fatti avvenuti nella capitale, sia nei commenti che si sono letti sui giornali e sui blog dei leader politici, restando fedele alla consegna de Il lavoro intellettuale come professione:” La funzione specifica della scienza” è “quella di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente evidente”.
Innanzitutto, merita un’attenta riflessione il sospiro di sollievo, che si è levato da ogni parte politica, perché, questa volta, a differenza che a Genova nel 2001,”non ci è scappato il morto”. La distruzione di cose, la messa a ferro e a fuoco di banche, vetture, caseggiati, mezzi blindati delle forze dell’ordine, tutto, infatti, appare preferibile alla perdita di una vita umana. Che sia un bene o un male, che tale sentire collettivo corrisponda a un autentico progresso morale è questione che non ci riguarda e che lasciamo volentieri ai filosofi politici. Il dato incontrovertibile, invece, è che in questa idea della sacralità della vita si incontrano le Weltanschauungen, visioni del mondo, più opposte: quella spiritualistica, propria delle religioni universali (e dell’odierno cattolicesimo in particolare) e quella materialistica, propria di una società laica e secolarizzata, per la quale “Dio è morto” e sotterrato.
In base alla prima, la vita è un dono soprannaturale di cui non possiamo disporre: non c’è peccato, in questa ottica, che non possa essere redento finché gli occhi continueranno a vedere “lo dolce lome”; in base alla seconda, siamo una fiammella accesa, per un brevissimo periodo, tra due nulla eterni: se la spegniamo, è l’intero universo che si estingue con noi ; ne deriva che non possono esserci ’valori’così alti da indurci al sacrificio supremo. Che volete che sia il fuoco appiccato (per sbaglio) al palazzo romano, che ha cancellato cinquant’anni di ricordi di una modesta famiglia piccolo-borghese? Per impedire l’atto vandalico, si doveva, forse, correre il rischio di ammazzare il black bloc o di esporre la vita del poliziotto?
L’edificio danneggiato si può restaurare ma un’esistenza perduta è perduta per sempre. Ormai, come ho scritto in altra sede:” Il senso dell’adagio latino propter vitam, vivendi perdere causas ha la stessa incomprensibilità dei geroglifici per un digiuno di egittologia”. Resta solo da spiegare come mai spiritualisti e materialisti giustifichino, poi, la messa a rischio della vita quando, tanto per fare qualche esempio, si deve impedire la profanazione di un simbolo religioso o si deve fare la rivoluzione. Un crocifisso dato alle fiamme può sempre venire sostituito da un altro più bello e più robusto e a quelli che hanno dato la vita, una rivoluzione vittoriosa non recherà alcun giovamento. In realtà, il biologismo buonista non ha affatto trionfato su tutta la linea: il comandamento “non uccidere!” non vale in assoluto ma solo in relazione alle ‘cause’per le quali si impugnano le armi e oggi il mantenimento dell’”ordine pubblico”, che aveva giustificato la nascita dello Stato moderno, non sembra più una ‘causa’ così nobile da giustificare il ricorso alla violenza estrema.
Il secondo insegnamento che viene dalla guerriglia urbana di San Giovanni in Laterano, è una oggettiva spaccatura all’interno della classe dirigente sulle “regole del gioco” che dovrebbero presiedere al confronto politico tra due schieramenti avversi. Dove tale accordo è fortemente radicato negli animi e nei costumi della gente, il pugno di ferro delle istituzioni contro i ‘perturbatori dell’ordine’ trova tutti consenzienti, destra e sinistra, conservatori e progressisti. Nell’Inghilterra ottocentesca, le ‘classi sociali pericolose’ furono represse, senza troppi riguardi, col plauso di tory e liberal: quelle classi minacciavano la “casa comune” e, pertanto, andavano fermate, qualora avessero voluto forzare gli accessi a Westminster, anche a rischio che ci scappasse il morto.
In un sistema politico fragile, privo di valori comuni, i morti nel corso di un’insurrezione, diventano preziose risorse politiche per l’opposizione: parlamentari, giornalisti, intellettuali, professori ne trarranno pretesto per mettere sotto accusa il governo, per suscitare davanti all’opinione pubblica lo spettro di una classe politica feroce e sanguinaria. Nei paesi dell’Europa continentale, capita spesso che l’establishment sia fortemente lacerato al suo interno (nei paesi non ricchi il ‘sistema’ non garantisce a tutti gli stessi utili) e che la parte dell’establishment, al momento in difficoltà, cerchi sostegni “al di fuori” del palazzo, mostrando comprensione per la ‘protesta sociale’ alla quale si fa intendere che solo se i suoi uomini assumessero la guida dello Stato potrebbe esserci giustizia per tutti.
E’ lo spettacolo, che si rinnova in tutti i secoli, delle frazioni della classe dirigente romana—aristocratici ed ‘equites’—che, per prevalere sulle rivali, si appoggiavano al popolo, giungendo talora persino a camuffarsi da plebei (v. il caso classico di Publio Claudio Pulcro che cambia il suo nome in Clodio). Il nuovo ‘blocco sociale’ rappresenta una positiva “apertura del sistema” se le istituzioni ne escono rafforzate, con il cosiddetto ‘allargamento della base sociale’ dello Stato e una più ampia ed equa ripartizione di diritti e di doveri, ma può costituire l’inizio di una decadenza irreversibile se l’operazione si risolve in un’occupazione della res publica a beneficio di una parte della vecchia classe dirigente in combutta con una parte della vecchia classe diretta—la ‘gente meccanica e di piccolo affare’.
In Italia, l’uso casuale della violenza, da parte di un agente dell’ordine, contro il black bloc genovese, Carlo Giuliani, è diventato una ‘risorsa simbolica’ per una parte dell’opinione pubblica progressista.”Il ragazzo sbandato che era in tutto e per tutto uguale ai più scalmanati protagonisti della giornata romana—ha scritto Mario Cervi sul ‘Giornale’– è diventato un modello virtuoso. Di lui Giuliano Pisapia ha detto: ‘Era un ragazzo che sognava un futuro migliore per il nostro Paese e per il mondo”. Per carità, l’analisi scientifica non autorizza nessuna ironia e nessun moralismo sulle parole del sindaco di Milano ma non pertanto rinuncia a registrare una frattura profonda nella classe politica—di cui Pisapia fa parte come primo cittadino del Comune più importante d’Italia. L’impiego della violenza, a ragione o a torto, nel nostro paese, diventa l’occasione per riaprire antiche piaghe, per dividere ulteriormente i professionisti della politica, per scatenare una nuova’guerra civile’ sia pure di parole.
Ma c’è di più. A Roma ‘ottimati’ e ‘popolari’ non erano divisi dalla diversa valutazione della natura del sistema sociale ma dalla spartizione dei vantaggi che ne derivavano agli uni e agli altri. La fabbrica imperiale—che faceva affluire nell’urbe schiavi e ricchezze di ogni genere—andava bene a tutti ma quanti abitavano nei piani bassi della res publica ritenevano che, nella grande mangiatoia di terre e di tesori, a loro toccassero soltanto le briciole. Oggi ci troviamo dinanzi a una ben diversa recriminazione nei confronti dei detentori del potere. La ‘protesta’, per dirla col sociologo nordamericano Neil Smelser, non riguarda le ‘norme’ ma i ‘principi’, non riguarda il modo di amministrare il patrimonio collettivo (certo ci si lamenta anche di quello, specialmente in Italia dove il fattore B, Berlusconi, complica enormemente la lotta politica) ma investe l’ingiustizia di un ‘sistema’ bancario, industriale etc. che produce disoccupazione e alienazione sociale”.
A Roma—ha scritto l’onesto Valentino Parlato sul ‘Manifesto’– ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile”. Dietro queste franche e coraggiose parole (coraggiose perché Parlato non si unisce alla solita retorica buonista, pronta a condannare la. violenza “senza se e senza ma”), ci sono la sfiducia sostanziale nella democrazia liberale–” la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.”–e il ripudio dell’economia di mercato, del ‘liberismo selvaggio’–” La crisi attuale – più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 – non può essere superata con i soliti strumenti.
Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo? Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente”. In altre parole, condanna dei black bloc ma comprensione doverosa delle ragioni degli ‘indignados’! Qui è l’intero ‘sistema’ (di marcusiana memoria) viene messo sotto accusa e, quel che è più rilevante, non solo dall’esponente di una formazione minoritaria della sinistra estrema (il gruppo vivo e vegeto de ‘Il Manifesto’) giacché lo stile mentale di Parlato trapassa tutto in un politico come Antonio Di Pietro, che certo fa parte o ha fatto parte (come commissario di PS e come magistrato) dell’establishment.
"Oggi, si può leggere nel suo blog, in tutto il mondo e anche a Roma ci saranno grandi manifestazioni. Il motivo per cui si manifesta è sacrosanto: ottenere un po’ di giustizia in un mondo che non la conosce più. Proprio perché so quanto fondati siano i motivi della protesta e quanto sia comprensibile la rabbia che cova soprattutto fra i giovani voglio lanciare un appello perché nonostante tutto sia mantenuta la calma e la manifestazione sia tanto indignata quanto civile e pacifica, senza incidenti che farebbero comodo solo a Berlusconi e alla sua propaganda bugiarda”. Al di là della retorica ufficiale, “quer pasticciaccio brutto” dell’ottobrata romana ha messo a nudo spaccature insanabili relative alla legittimazione politica dello Stato nazionale e all’atteggiamento dinanzi alla violenza connesso a quella legittimazione.
E’ vero, come scrive Piero Ostellino sul ‘Corriere della Sera’, che la rivoluzione è lontana anni luce giacché:” al posto di Lenin, c’è una stralunata parodia del leninismo (di Stato e rivoluzione, che peraltro non hanno letto), da parte di una minoranza violenta di suoi tardi, e ignoranti, nipotini; che suppliscono all’assenza di prospettive rivoluzionarie con un rivoluzionarismo di piazza che assomiglia più a un caso di criminalità organizzata che a un progetto politico”; ed è, altresì, innegabile che la confusione delle idee e l’ingenuità dei manifestanti sono così grandi da far dire a una ‘indignada’ romana, che sembrava uscita da un film di Carlo Verdone–”Noi non abbiamo in mente nessun’alternativa al capitalismo, sappiamo solo che va distrutto. Riuniamoci tutti in un’assemblea e decidiamo assieme come sostituirlo!”, come si vede, un cascame ideologico del vecchio adagio rivoluzionario: “On s’engage et puis… on voit”–, ma non facciamoci troppe illusioni: nei cuori umani, le credenze e le idee non vengono indebolite dall’impotenza, anzi, come certe passioni amorose, possono divampare con più ardore proprio in ragione dell’irraggiungibilità del loro oggetto.
C’è, però, un ultimo rilievo da fare sull’episodio romano e riguarda la tentazione—propria dei giornali benpensanti di destra—di contrapporre alla ‘comprensione’ la ‘criminalizzazione’. La squalifica morale dei ‘ribelli’, dei rivoluzionari, dei ‘facinorosi’, svolge una funzione di rassicurazione per l’uomo della strada ma non fa comprendere il mondo. Se una ‘società civile’ viene descritta come l’inferno in terra, se si ritiene che sia una fabbrica di ingiustizie, che sia dominata da un gruppo di predoni e di malfattori, insediati nel governo, nelle banche, nelle aziende, nelle amministrazioni pubbliche etc., l’estirpazione del Male diventa il dovere supremo per chi abbia a cuore le sorti dell’infelice genere umano. Posto il fine, però, ci può ben essere disaccordo sui mezzi: alcuni (la maggioranza dei contestatori) possono ritenere che mettere a soqquadro una città con bombe incendiarie, spranghe ed estintori usati come armi improprie, sia controproducente e metta a rischio il raggiungimento degli obiettivi prefissi (in tal modo, è l’obiezione classica,”si fa il gioco della reazione”: si ricordino le parole di Di Pietro: gli incidenti ”farebbero comodo solo a Berlusconi e alla sua propaganda bugiarda”) ma altri possono pensare il contrario, tenendo ben presenti le funzioni sociali e politiche della violenza, a cominciare dalla garanzia di visibilità.
Gli ‘incidenti’ squalificano, presso gran parte dell’opinione pubblica, i promotori dei disordini ma, senza incidenti, una dimostrazione pacifica non avrebbe certo tenuto occupati giornali e commentatori per un tempo così lungo. Del resto, non sono mancati uomini e donne intervistati dalla radio e dalle varie televisioni che hanno ricordato, candidamente, che “per cambiare veramente, nei secoli passati, si è sempre dovuto far ricorso alla violenza”. La violenza, in fondo, è la levatrice della storia, come insegnava il vecchio Marx, che, peraltro, non aveva dubbi sulla bellezza e sulla sanità del nascituro. Dinanzi ai delitti commessi dai banchieri, dinanzi ai milioni di africani uccisi dalla fame e dalle malattie per (la presunta) colpa delle multinazionali, che importanza può avere qualche vetrina spaccata, qualche bancomat dato alle fiamme? Le manifestazioni di violenza “meglio se non ci fossero state”, come scrive Parlato, ma non sono esse il problema!
Sembra innegabile, stando almeno ai resoconti della stampa e della TV, una forte componente di isteria da jeunesse dorée nella pattuglia dei black bloc, ma, forse, in tutti i rivoltosi della storia ha albergato una qualche dose di lucida follia. Ciò che davvero preoccupa è che abbiamo, soprattutto in Italia, una political culture che alimenta e approfondisce le contrapposte ‘visioni del mondo’. E che, pertanto, ci saranno sempre, come è facilmente prevedibile, “compagni che sbagliano” ovvero militanti che, nella lotta contro il capitale, adottano strategie (da altri ritenute) suicide: sbaglieranno, sì, ma resteranno pur sempre ‘compagni’giacché continueranno a condividere, coi loro avversari ‘interni’, la stessa volontà di cambiamento radicale.
Non meraviglia, per queste ragioni, che a Genova non sia venuta meno la pressione di una consistente parte del ‘popolo di sinistra’ per fare intitolare Piazza Alimonda a Carlo Giuliani, per alcuni un “compagno che ha sbagliato”, per altri un eroe del nostro tempo, per tutti gli antagonisti “uno di noi”, “un ragazzo– per ripetere le parole di Pisapia–che sognava un futuro migliore per il nostro Paese e per il mondo". All’analista politico, che non vuole trasformare il mondo ma soltanto (tentare di) conoscerlo, incombe, soprattutto, il dovere di far luce sui fatti e sui loro nessi, lasciando condanne e assoluzioni al prete o all’”intellettuale impegnato”.
Nella fattispecie, purtroppo, i fatti “parlano chiaro”: se un sistema politico gode di un alto ‘reddito di legittimità’ quando la condanna della violenza contro le istituzioni e i loro simboli è incondizionata, quando un poliziotto che uccide chi non si ferma all’alt e tenta di forzare con la violenza l’ingresso di un edificio pubblico o privato non diventa una ‘risorsa’ nello scontro politico, da utilizzare contro gli avversari al governo, quando “il compagno che ha sbagliato” non è più un “compagno” ma diventa un nemico delle istituzioni (come lo diventarono i bolscevichi per i socialdemocratici al governo al tempo della Repubblica di Weimar), quando la ‘political culture’ è caratterizzata da un accordo sostanziale sui ‘valori’—a cominciare dal ‘sentimento dello Stato’avvertito come un’bene comune’da sottrarre alla competizione dei partiti—ed è divisa soltanto dal modo di realizzare quei valori, traducendoli in leggi e in istituzioni, se ne conclude che non ci resta che registrare malinconicamente quanto il sistema politico italiano poggi sulle sabbie mobili.
Non saranno certo gli intellettuali a dargli solide fondamenta ma gli intellettuali potrebbero dedicarsi al compito, modesto ma utile, di far chiarezza: dovrebbero, ad esempio, avvertire che se si ritiene (come pensano Giorgio Bocca, Rosy Bindi e altri) Berlusconi una reincarnazione (‘mediatica’) del duce a qualcuno potrebbe venir in mente di diventare la reincarnazione di Anteo Zamboni, e di essere, questa volta, più fortunato del giovane attentatore di Mussolini.