Gli scrittori della Trieste cosmopolita si riunivano alla libreria Schimpff
25 Ottobre 2009
In questo estratto da un saggio dedicato a Scipio Slataper, Giani Stuparich dipinge la vita culturale triestina a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il ritratto consegnatoci dallo scrittore è quello di una città alla ricerca della propria identità, tra istituzioni culturali arretrate e la felice eccezione rappresentata dalla libreria Schimpff.
Trieste era stata una città cosmopolita, s’era fatta italiana per combattere più efficacemente, negli interessi per lei vitali del commercio, la rivale di fronte, Venezia, città italiana. Per i medesimi motivi nel tempo stesso si concedeva materialmente a un signore straniero. Questa contraddizione da prima non fu sentita, ma a poco a poco venne formando quel contrasto di vita così caratteristico della recente storia triestina. Contrasto che andò radicandosi sempre più, sino a sbocciare in dramma intimo in qualche coscienza individuale.
Fu questo sentirsi uniti d’aspirazioni con la madre patria ed essere staccati anzi opposti nella concorrenza per le necessità di ogni ora, il fatto che impedì la formazione di quella base stabile da cui solo può sorgere una vita di coltura. Prima dell’unificazione d’Italia, la vita di Trieste si squilibrò tra lo sforzo d’ingrandirsi a emporio commerciale, con tutto il preoccupante assorbimento delle coscienze da parte dei piccoli valori pratici, e l’opposta quiete di alcuni ricercatori di valori astratti. Dopo, essendosi acuito quel contrasto, si esaurì tra l’ingranaggio degli interessi e la fiaccante tensione d’una politica quasi morbosa.
Per farsi un’idea dell’azione avvelenatrice di quest’ultima, bisogna considerare in genere come sono vissute le popolazioni dell’Austria-Ungheria. Chi s’è immerso per qualche tempo nell’atmosfera compressa in cui esse respiravano, più facilmente può comprendere e la loro psicologia e l’aspetto tutto speciale delle loro colture. Nell’intricarsi d’una duplice fronte di battaglia da nazione a nazione e da nazione a governo centrale, si viveva sotto l’incubo d’una minaccia continua, tanto più grave quanto era più oscura e imprecisa.
[…] Nascere in questi paesi voleva dire nascere con una eredità malferma, da puntellare momento per momento. Camminare voleva dire urtare. Non c’era un posto, uno solo, dove riposare in contemplazione. Se t’assidevi sulla sponda d’un ruscello, per confonderti col suo calmo fluire, dall’altra sponda ti giungeva subitamente un grido a cui dovevi opporti. Se cercavi in alto la serenità del cielo che si spiega sulle schiene luminose delle montagne, trovavi sulla stessa cima già assiso chi al tuo appressarsi avrebbe puntato i piedi per difendersi e il bastone levato per ferire.
E così da bambino ti insegnavano a parlare la tua lingua come si maneggia un pugnale, da giovane a comprimere tutta la tua energia verso uno scopo solo e a sbattere il tuo entusiasmo contro una barriera cieca, stregata, che risorgeva come la abbattevi. Uomo, sentivi il dovere, ormai conficcato come un pungolo dentro la carne, di stare in guardia per il bene tuo e dei tuoi figliuoli e per la memoria di tuo padre. Un’estenuante e eterna vigilia, senza il cambio e senza la soddisfazione di poter dare una volta il segnale d’allarme per una battaglia campale. Tutto un esercito di uomini riversati alla periferia, per difendere il posto centrale lasciato vuoto, dove avrebbero dovuto vivere costruendo; ma non potevano.
Questa continua tensione di militanti era naturale che impedisse il formarsi e il disporsi organicamente di una base di coltura, per la quale è necessaria una certa calma in cui si depongano gli strati e si concretino le forme. Nasca cioè la tradizione. Ora, tradizione in questo senso non esisteva nei paesi dell’Austria. Esisteva bensì una tradizione sentimentale, in quanto un sentimento di coesione e di lotta perdurava attraverso le generazioni, ma anche questa come è natura dei sentimenti, saltuaria e nebbiosa. Quindi non vera tradizione di coltura, che è soprattutto tradizione di giudizi. La parola, il giornale, il libro, la scuola che, usati con libertà d’intendimento e di critica, sono efficaci mezzi di coltura, erano invece mezzi di propaganda. La propaganda al posto della coltura.
Mettete la propaganda, intenzionale subdola poveramente superficiale e, a rigor di termini, disgregatrice al posto della coltura, libera franca profondamente ricca e organicamente critica, e avrete trovato la chiave per capire la miseria delle storie intellettuali delle varie nazioni del vecchio impero danubiano. Nessuna si salva. Nessuna è riuscita a innalzare neppure un vertice in quell’atmosfera in cui guardano le altezze dei due valori universali, arte e filosofia. La stessa nazione czeca, la più compatta e sviluppata, non ha dato che mediocri artisti e più mediocri filosofi. Ma il fenomeno più caratteristico lo presentano i due brani di nazioni, tedesca e italiana, che vivendo staccati dal loro complesso omogeneo, non hanno potuto ne saputo fruttificare fuori del terreno fertile delle tradizioni materne.
[…] Vediamo Trieste. Questa città che pur col tempo venne accentrando il flusso vitale della Venezia Giulia, fu intellettualmente più povera della stessa sua provincia; dove dalla calma solitaria di qualche paesello sorgeva pur di tanto in tanto un ingegno di promessa, se non d’affermazione. Trieste, se è passata nella storia, lo deve ai suoi piroscafi, ai suoi moli, ai suoi sacchi di caffè. Ma se andiamo oltre la sua intraprendenza commerciale in genere, troviamo una pagina sola, nei bronzei annali della storia, che ricordi Trieste : quella di Guglielmo Oberdank; che impersona la sua fede e la sua impotenza, la sua volontà negativa e il suo martirio.
E come mancò d’uomini, così naturalmente mancò di centri e di correnti intellettuali. Non un giornale, una rivista, degni d’esser chiamati organi di coltura. Caratteristico verso il 1840 il tentativo de «La Favilla». Significativa la lettera che nel fondare questa rivista, Antonio Madonizza capodistriano scriveva all’amico conte Prospero Antonini il 31 agosto 1835 : «Se le mie fatiche avessero ad esser derise od in qualunque altro simile modo vandalico compensate, potrei liberamente trarre cospicuo argomento per dire che questa gente è viva-morta ed incapace di ogni più piccola aspirazione verso il migliore».
Se tuttavia «La Favilla» durò per qualche anno, fu per la costanza di pochi individui e per i tempi eccitati che preparavano il quarantotto, non per l’accoglienza né l’aiuto della cittadinanza; la quale dopo il ‘48, tolto il contatto con le altre Provincie italiane, immiserì anche più. Quando la giovinezza ambiziosa di Scipio Slataper urgeva per entrare fattore attivo nella vita cittadina, in sul primo decennio del secolo ventesimo, le cose non erano profondamente mutate. C’era sì un più largo contatto con la vita spirituale d’Italia, ma tutto di superfìcie. Un ricco teatro, del resto il solo svago che avesse sempre attirato i grassi commercianti e i banchieri triestini, poteva stare alla pari coi maggiori d’Italia, ma con questi condivideva pure il livello bassissimo delle intenzioni artistiche.
Una «università popolare » di nome, di fatto un’impresa di conferenzieri, ebbe il torto di far conoscere ai triestini troppo dell’Italia vecchia e parolaia e niente dell’Italia nuova; ma in fondo servì a far circolare l’aria nel chiuso; aria che purtroppo i triestini pigliarono tutta per pura, mentre in gran parte erano zaffate di stantio. Vivacchiava una «Minerva » ristretta e prolissa, e un tantino infingarda società di filiazione arcadica. Una biblioteca, non poverissima di volumi, ma molto disordinata e di locali miserabili. Nessuna sala di lettura. Ma in compenso e di questa e della biblioteca, una libreria modello. La libreria del germanico Schimpff, posta nel centro, ospitale, aperta a tutte le correnti, fu veramente benemerita della coltura triestina.
Ci si andava a passare delle mezz’ore, sfogliando e rovistando, sempre bene accetti anche quando s’usciva senza comperar nulla; si potevano avere libri in casa, guardarseli con cura e rimandarli anche; per le povere saccocce c’erano i conti correnti a piccolissime rate mensili, per cui più d’uno studente potè farsi quasi senza accorgersene il primo nucleo d’una sua biblioteca. E, importante, questa liberalità pratica s’aggiungevano una larghezza d’idee e conoscenza del campo librario, del padrone stesso e degli impiegati ben scelti, che permettevano l’arrivo e l’esposizione ordinata dei libri più vari e più nuovi.
Questa libreria aveva saputo superare anche le difficoltà del confine e molto prima e meglio della stampa, fece conoscere a Trieste il nuovo mondo librario italiano. Ben presto s’allinearono sul banco spazioso le sobrie edizioni Carabba, le variate Formiggini, le aristocratiche Laterza e fra queste di tanto in tanto fecero capolino sconosciutissimi editori, come Quattrini di Firenze, Ricciardi di Napoli, Piccini d’Ancona. Sul tavolino delle riviste, fra La Lettura, Il Secolo, La nuova Antologia eccetera, staccava la copertina severa de La Critica. E vicino a Il Marzocco capitò un bel giorno La Voce, anzi ebbe l’improntitudine di sciorinarvisi tutta larga e lunga com’era.
Tratto da Giani Stuparich, Scipio Slataper, Firenze, Edizioni “La Voce”, 1922