Gli spin doctor di Fini lo vorrebbero gemello di Sarkozy
10 Dicembre 2009
di Daniela Coli
Per costruire la nuova identità di Gianfranco gli spin doctor di Fini si danno da fare da anni per presentarlo come il gemello italiano di Sarkozy.
Hanno tradotto libri di Nicolas dal 2006 (Témoignage/Testimonianza a cura di Fabio Torriero con prefazione del capo di An) e Marina Valensise ha sfornato nel 2007 la biografia di Sarkozy dopo la vittoria. “Fini e Sarkozy: chi assomiglia di più e a chi? E soprattutto Gianfranco sfiderà Berlusconi come Nicolas ha fatto con Chirac?”, domandava Giuliano Zincone dal Foglio fin dal 30 novembre del 2006.
“Insomma, Sarkozy – recita la quarta di copertina della Valensise – aveva contro tutto e tutti, eppure è riuscito a vincere, conquistando il partito con una determinazione feroce, convincendo i francesi a ritrovare la fiducia nel futuro e dominando se stesso con un’energia al limite dell’ascesi. Con lui, l’elezione del presidente della Repubblica – evento definito da Charles De Gaulle l’incontro tra un uomo e il popolo – è diventata l’incontro tra un popolo e un programma, realizzato da un individuo che ha messo in scena se stesso, in una drammaturgia della rupture con il conformismo, le abitudini e i modi di pensare del passato”. Era già tutto qui il plot della rupture rappresentata nel 2009 da Gianfranco, difensore del parlamento contro la monarchia assoluta (manco fossimo nella Londra di Carlo I o nella Parigi di Luigi XVI), devoto della Costituzione e della laicità, patrono della scomparsa della destra e della sinistra, recentemente paladino della cittadinanza agli immigrati, perché l’Italia è di chi la ama e bisogna fare futuro.
Ma ha esagerato con la rupture, si è imbufalito con gli svizzeri per il voto contro i minareti, dichiarando col fervore del neofita: “Avrei votato convintamene per consentire il diritto di culto”. Invece, Nicolas Sarkozy, quello della rupture autentica ha invitato i francesi a rispettare il popolo svizzero, la cui democrazia è la più antica d’Europa, e ha dichiarato che è importante rispettare la religione di chi arriva, ma che in Francia, dove i valori della République sono parte integrante dell’identità nazionale, la civiltà cristiana ha lasciato una traccia molto profonda.
Per Sarkozy la globalizzazione rende l’identità nazionale problematica perché da una parte contribuisce a smembrarla, dall’altra ne acuisce il bisogno. Sarkozy è stato attaccato dal rivale di sempre Dominique de Villepin, che lo ha accusato di essere autoritario e assurdo con tale veemenza che forse il nuovo plot degli spin doctor di Fini ci presenterà tra breve un Gianfranco-de Villepin (chissà, magari imparentato con Carlo De Benedetti) in lotta contro il despota Sarko-Berlusconi. La reazione del presidente francese non stupisce: ha vinto le elezioni perché da ministro dell’interno ha sfidato la canaille della banlieue in fiamme, senza cadere nella trappola dell’antislamismo becero, né nella melassa del multiculturale. La Francia ha 6 milioni di musulmani, è il paese che si è opposto alla guerra in Iraq, nonostante l’America di Bush chiedesse il boicottaggio delle merci francesi, fa politica estera alla grande e, soprattutto, ha una tradizione statuale secolare, quella che permise ai francesi di reagire all’occupazione dividendosi con Pétain a Vichy e De Gaulle a Londra, in modo di non versare – come scrisse Aron – una goccia di sangue francese e sedersi comunque al tavolo dei vincitori.
Un sondaggio sul voto svizzero ha evidenziato che il 46% dei francesi avrebbe votato contro i minareti, mentre il 40% a favore. Sarko è in politica da ragazzo, è stato ministro, soprattutto ha fatto tutta la campagna elettorale per l’identità francese, includendovi pure Giovanna d’Arco, e ha chiaro che una nazione non è una tribù, né una comunità. I francesi hanno avuto un impero, hanno dato la cittadinanza agli immigrati non solo per ragioni di buonismo, ma perché l’economia era già “mondializzata” prima della globalizzazione. Sanno però che la Francia non è una nazione-continente come gli Stati Uniti. Sanno che l’Europa non ha la geografia e la storia dell’America, sanno che l’Europa per secoli ha avuto rapporti con gli arabi, Parigi è piena di arabi e ha la più grande comunità ebraica europea. Le nazioni europee sono sempre state in rapporto con popoli e culture diverse, ma non sono nate dall’immigrazione come gli Stati Uniti, non sono un melting pot.
Gianfranco Fini pare assemblato per obiettivi diversi da quelli sfoderati con enfasi come Presidente della Camera. Fare Futuro non nasconde di volere egemonizzare il centrodestra e di volere Gianfranco alla guida del Pdl. Nessun scandalo: nei partiti è sempre esistita la lotta tra individui e gruppi per l’egemonia, ma come ha scritto Lodovico Festa sul Foglio, Blair e Sarkozy non si sono mai appoggiati ai tory o ai socialisti francesi per vincere la battaglia nei loro partiti e non è per niente chiaro il disegno strategico di Fini. Per questo, non ci diverte affatto, come invece diverte Alfonso Berardinelli vedere la sinistra acclamare Fini leader dell’opposizione. Berardinelli ha una grande penna, è un grande affabulatore, ma nel suo libro sul postmoderno si è sbarazzato di Derrida in tre pagine e ha preteso di stroncare Heidegger in dieci pagine, come ha osservato Andrea Cortellessa. Berardinelli scrive divinamente, ma non si rende conto che tutta la sua polemica contro le ideologie è il pilastro principale dell’aborrito postmoderno, teorizzato da Lyotard, che non è un calciatore del Perugia.
Di fronte al problema del disegno strategico di Fini, guarda dall’alto e scrive: “ ‘Lasciatemi divertire’, invocava Palazzeschi nella sua stagione futurista, età di rovesciamenti e terremoti ideali. ‘Lasciatemi divertire’ potrebbe essere lo slogan di una nuova destra culturale, libertaria e non autoritaria, riformatrice e non conservatrice, democratica e non populista, che dell’eclettismo e del trasversalismo intellettuali fa una bandiera da innalzare contro quei musi illividiti del potere berlusconiano”. Grande penna, grande affabulazione, ma non siamo nel ’19, non è appena finita la prima guerra mondiale e Fini e i suoi non hanno faccini da neonati. In piena ipnosi futurista di rovesciamenti e terremoti, Berardinelli ci informa che a Fare Futuro hanno appena scoperto Chatwin e Kerouac, leggono Renan e Tocqueville e dialogano con Asor Rosa e Tronti, applauditi su Repubblica da Simonetta Fiori, figlia di Giuseppe Fiori, biografo di Gramsci e autore nel 2004 di un libro su Berlusconi intitolato Il Venditore, chiaramente pidduista e mafioso.
Berardinelli va in trance, perché immagina una sinistra ignara del rapporto di Berlin con Herzen, scoperto da Fare Futuro. Gli eroi di Berlin, come può spiegargli qualsiasi studente universitario andato a lezione da un buon professore che ha votato Veltroni o Bertinotti, sono Herder, Vico, Machiavelli. La sinistra italiana è diventata egemone perché era capace, ed è ancora capace, di occuparsi di tutto, anche di Schmitt, di Nietzsche e ora perfino di Evola. Figurarsi se non sapeva quali erano gli autori di Berlin, di cui è ormai noto a chi si occupa di filosofia, qualunque sia la parte politica preferita, perfino il ghost writer, la passione per i tarocchi e le accuse di Christopher Hitchens di essere stato spia della Cia. Per Berardinelli, la sinistra si dissolverà in Fini come neve al sole e tra Repubblica e Fare Futuro “vincerà il più forte”. Il futurismo fa brutti scherzi ai letterati, perché non siamo nel 1919, né nel ’21, siamo nel 2009 e se questa è la grande strategia del nuovo Timoniere, meglio il ciarpame delle veline, che almeno non vanno in trance per Simonetta Fiori su Repubblica.
In Fini e i suoi spin doctor non preoccupa la sindrome di Stoccolma, come l’ ha definita Gianfranco de Turris, ma quella dell’apprendista stregone che naviga a vista. Ci sono troppi ultracinquantenni ex-belli guaglioni in giro, in cerca di futuro. Intanto, per fortuna il vero Sarkozy fa sentire la sua voce e riporta alla realtà i futuristi dell’ultima ora.