Gli Stati Uniti d’Europa? Se non il permesso, chiedeteci almeno il voto
29 Giugno 2012
Tutti uniti al grido di “Stati Uniti d’Europa”. E’ questo l’ultimo ritrovato della politica del Vecchio Continente rispetto alla crisi che stringe i paesi a più alto debito e deficit, accumunati oggi dal male di una mordace doppia-recessione. Non v’è giornale, testata online o all-news televisiva, e stavolta non solo nell’Italia facilona delle parole al vento, che non faccia in qualche modo uso della formula.
Anche in Germania se ne parla. Non proprio con la formula Vereinigte Staaten von Europa, ma nella sostanza, il concetto è lo stesso. Nel giorno dell’esito del Consiglio europeo ‘salva euro’, quello dello scudo anti-spread, della Tobin tax, del piano europeo di crescita, della creazione di una super-autorità bancaria europea, insomma nel giorno della verità, molto sarà detto nel merito delle faccende discusse a Bruxelles, ma poco sarà detto, e non dubitiamo che sarà così, sul metodo. Chi decide? I governanti o i cittadini?
Nei giorni che hanno preceduto l’Eurosummit, sulla stampa e nel dibattito politico tedesco, ha tenuto banco il nodo ‘referendum’ per una modifica della Costituzione tedesca, una delle soluzioni prese in considerazione in Germania per rendere possibili cessioni di potere in materia di finanza pubblica e di politica fiscale alle autorità europee.
Una proposta partita dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, e purtroppo cassata sul nascere dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Sembrano non esserci molti dubbi sul riflesso pavloviano della Kanzlerin, e in particolare sulle reali ragioni che vi soggiacerebbero. La cancelliera cristiano-democratica deve aver annusato i rischi che correrebbe se davvero avvenisse una chiama del corpo elettorale tedesco sulla politica europea.
Ciò non solo per il segnale che una già traballante unione monetaria europea manderebbe ai mercati – con buona probabilità l’incertezza del clima pre-referendario in Germania distruggerebbe quel che rimane della solidità dell’euro-, ma soprattutto per i rischi politici che correrebbe in prima persona la Cancelliera, lei la politica più ‘pop’ di Germania, considerato che un referendum del genere potrebbe facilmente trasformarsi in un voto sulla sua politica europea.
Ma comunque si giudichi il rifiuto merkeliano a far ricorso all’aleatorio strumento referendario per far ingoiare ai tedeschi una possibile cessione di poteri all’Ue, non v’è dubbio che il coinvolgimento dei corpi elettorali europei nelle decisioni sul futuro del processo d’integrazione europea sia stato, certamente nell’ultimo anno e del passato recente non si può dire il contrario, del tutto assente, fatta eccezione per il recente voto irlandese nella forma del suo referendum sul ‘fiscal compact’.
Che si sia europeisti o euroscettici, è innegabile che il ricorso al trattato come strumento principe per l’avanzamento del processo di concentrazione di poteri a livello comunitario, sia ormai, ed è forse vero dal 1992 in poi, ovvero col trattato di Maastricht e l’istituzione dell’ECU, del tutto obsoleto. E certo che quando qualche politico se l’è preso il diritto di dare la parola ai cittadini, i risultati sono stati deludenti per gli epigoni dell’ideologia euro-federalista e non solo loro.
Come dimenticare i ‘no’ degli elettori francesi e olandesi ai referendum d’approvazione della Convenzione europea. E andando ancora più indietro, come dimenticare che in Francia, François Mitterand già molto malato fu costretto a invocare il referendum – in Francia prerogativa solo presidenziale – per far passare il Trattato di Maastricht del 1992 schivando così il voto dell’Assemblea (allora in mano alla Destra euroscettica del RPR). E quanta fatica fece Mitterand per spuntarla: il ‘sì’ vinse per un pugno di voti, qualche centinaia di migliaia di preferenze in più sui ‘no’.
A quasi vent’anni da quei giorni di Francia, i leader europei di un’Europa che non si chiama più Comunità economica europea ma Unione Europea, usano ancora i trattati per vincolarsi reciprocamente. Ma anche in Italia, dove lo strumento referendario è davvero mezzo di democrazia diretta, in base all’art. 75 della Costituzione italiana i trattati internazionali non possono essere oggetto di referendum (!).
E’ forse giunto il momento di dirsi che l’Europa avrà un futuro solo se sarà in grado d’abbattere il deficit democratico che contraddistingue non solo l’apparato burocratico nelle sue declinazioni Commissione – Agenzie europee – Autorità europea, ma anche le decisioni assunte dal pilastro intergovernativo dell’Ue: il Consiglio.
Il summit ‘salva euro’ che da ieri si tiene a Bruxelles e che si concluderà oggi con i suoi tanti nodi da sciogliere, sarebbe già una buon tavolo di prova per aprire una breccia nella a-democraticità delle decisioni che verranno assunte. Insomma, se è vero che la crisi imperversa e che bisogna ‘fare presto’, allora almeno i capi di stato e di governo europei abbiano la decenza di chiederci, se non proprio il permesso, almeno un voto.