Dopo le amministrative del novembre 2008, il Venezuela si prepara a un altro scontro elettorale. Hugo Chavez ha annunciato che il prossimo febbraio riproporrà la riforma costituzionale che prevede l’eleggibilità senza limite di mandato per il Presidente. Una proposta legge che è già stata sconfitta dal fronte del “No” durante il referendum del dicembre 2007. Ne parliamo con Yon Goicoechea – studente dell’Università Cattolica, Presidente dell’Istituto Metropolitano de la Iuventute e leader del movimento studentesco venezuelano che due anni fa, in modo inaspettato, riuscì a bloccare il referendum chavista. Una ‘riforma’ che prevedeva – oltre alla rieleggibilità a tempo indeterminato del Presidente – anche la nazionalizzazione della Banca Centrale e una serie di limitazioni alla proprietà privata e al pluralismo politico.
Come ha avuto inizio la ribellione del movimento studentesco?
Tutto nasce durante le discussioni politiche avvenute nelle università venezuelane a cui seguì la decisione di stabilire una relazione duratura tra i diversi leader del movimento. Creammo una sorta di network tra noi studenti per valutare la situazione politica del Paese. Iniziò come un esercizio accademico ma dopo la chiusura di RCTV – la più grande rete televisiva privata, oscurata da Chavez che non la giudicava in linea con la rivoluzione bolivarista – ci riunimmo e scendemmo in strada per dimostrare il nostro disaccordo sulla decisione del presidente.
In quel momento abbiamo compreso l’importanza e il potere che i giovani hanno in una società. Così decidemmo di creare un Parlamento Nazionale degli Studenti invitando tutti i rappresentanti delle università. In Venezuela abbiamo questa situazione speciale per cui l’estrema destra ha perso tutti i rappresentanti ma ce ne sono ancora e tanti di centro-destra, di centro-sinistra o anche di centro, e per questo fu davvero facile riunirci contro l’emendamento della Costituzione proposto da Chavez per conservare il potere. In poco tempo abbiamo organizzato 45 manifestazioni a Caracas e in altre otto città, le maggiori del Venezuela. Alla più grande di queste marce hanno partecipato oltre 200.000 mila persone, alla più piccola 10.000. Durante il referendum ci rendemmo garanti della regolarità delle operazioni di voto entrando nei seggi come osservatori.
Quale è stato il messaggio che avete diffuso?
La libertà è un fenomeno umano che va oltre l’idea di libertà puramente economica. Penso che la strategia di comunicazione del liberalismo nel mondo di oggi sia errata perché si concentra eccessivamente sui fenomeni economici. La libertà è molto di più di questo. Naturalmente è importante che esista un sistema economico imperniato sulla libertà, ma la libertà ha a che fare con la natura umana, con il riconoscimento che le persone possono essere diverse tra loro. Noi difendiamo il valore della libertà nel suo significato più ampio di rispetto verso le idee degli altri. Difendiamo lo Stato di diritto, la non discriminazione e la libertà di espressione. Vogliamo diffondere l’idea di una riconciliazione in Venezuela. Viviamo in un sistema politico e sociale molto polarizzato, quindi proponiamo alla società venezuelana di riconciliarsi. Possiamo pensarla diversamente ma siamo tutti esseri umani che meritano rispetto.
Qual è stata la vostra strategia di comunicazione?
Le mani bianche. Ci colorammo le mani di bianco per simbolizzare due cose. Prima di tutto che non eravamo corrotti, che avevamo le mani pulite, non eravamo figli della precedente stagione politica. La base dello chavismo è il rigetto del passato ma noi non veniamo del passato, noi siamo il futuro. Io ho ventiquattro anni, Chavez quando arrivò al potere ne aveva quaranta. Non apparteniamo al passato: condannare un passato corrotto non basta a garantirsi un presente corretto. Mani bianche anche a simboleggiare che veniamo in pace. Vogliamo costruire un dialogo, gettare dei ponti nel Venezuela di oggi perché questo è un Paese diviso, non solo politicamente ma anche socialmente: povertà ed esclusione sociale sono fattori che creano due realtà differenti nello stesso Paese.
Dopo la vostra vittoria al referendum del 2007 avete subito degli atti violenti da parte degli estremisti chavisti. Oggi com’è la situazione?
Il pericolo per l’incolumità fisica c’è sempre. Sono stato aggredito fisicamente e calunniato in pubblico (Yon si riferisce alla parodia apparsa sulla rete di stato venezuelana che lo ha irriso mentre riceveva il “Milton Friedman For Advancing Freedom Award” alla cerimonia di premiazione dell’americano Cato Institute, nda). Durante una delle mie conferenze qualcuno ha messo un esplosivo sotto il palco. Sono stato offeso in ogni modo ma sono convinto che questa gente sia una minoranza. Gli chavisti radicali sono una minoranza, la maggioranza di quelli che votano per Chavez non sono persone di questa risma. Il nostro è un Paese pacifico, qui non c’è più stata una guerra da tanto tempo e la gente rigetta la violenza. Possono esserci persone che non sono d’accordo con me o che mi odiano ma rigettano comunque l’aggressione fisica come soluzione alle diversità politiche. Sì, qualche volta ho avuto paura, qualche volta ho paura, ma sono totalmente convinto che ne valga la pena: io voglio vivere felice in Venezuela, non voglio andare da nessuna altra parte, voglio essere felice con la mia famiglia qui. Credo che sia un mio diritto sperare che questo avvenga nel mio Paese.
Qual è la situazione politica dopo le amministrative di novembre?
Credo che il risultato sia stato bilanciato perché Chavez ha vinto nella maggioranza degli Stati ma l’opposizione, anche quando si è presentata divisa, ha conquistato gli Stati più popolosi e le città più importanti compresa Caracas. Nel voto popolare c’è stato quasi un pareggio, con l’opposizione più avanti seppure di poco. Insomma l’opposizione sta incrementando i suoi consensi. Chavez ha perso spazio – prima controllava tutto, oggi controlla meno Stati e per di più i più importanti sono passati all’opposizione. Il gioco non consisteva nel vedere chi avesse vinto più Stati ma chi avanzava e noi abbiamo avanzato mentre Chavez è tornato indietro.
Ora il presidente vuole indire un nuovo referendum per ricandidarsi a tempo indefinito alla guida del paese. Come giudica questa mossa?
E’ un terribile errore perché il Venezuela dovrebbe prepararsi ad affrontare la crisi economica mondiale in arrivo. Com’è noto siamo il terzo produttore mondiale di petrolio, la nostra economia è quasi interamente basata sul petrolio e quindi sul suo prezzo; perciò la crisi internazionale colpirà duramente la nostra società visto che i mercati petroliferi stanno rallentando. Vendiamo il petrolio a tre mesi e dunque nel 2009 potremo osservare i frutti della stagnazione che stiamo vivendo in questi giorni. E’ per questo che Chavez ha bisogno di forzare la sua rielezione ora, perché potrebbe non essere in grado di farlo dopo. Avremo una situazione sociale davvero difficile e la responsabilità di un Governo dovrebbe essere quella di pensare alle soluzioni e di trovare il modo di lenire i danni.
In ogni caso abbiamo già detto “No” sul quesito che ci viene riproposto e abbiamo vinto. Riproporre lo stesso referendum nello medesima legislatura è costituzionalmente illegittimo. Oltre che di istituzioni democratiche, lo Stato di diritto necessita anche dell’indipendenza della magistratura. In Venezuela abbiamo istituzioni democratiche ma non esiste l’indipendenza della magistratura e pertanto non ci sarà alcun Tribunale che alzerà il dito decretando l’illegittimità costituzionale della proposta di Chavez. Voteremo di nuovo ma io credo nel popolo venezuelano, nella gente venezuelana, anche in quelli che votano per Chavez: possono averlo scelto come presidente ma non lo vogliono per tutta la vita. Nella storia del Venezuela diversi presidenti hanno provato a fare colpi di mano del genere ma sono stati sempre sconfitti. Con questa nuova sfida Chavez non affronta solo l’opposizione ma la cultura venezuelana.
Cosa farete adesso?
Combatteremo. Abbiamo già iniziato a organizzare altre manifestazioni ma le proporremo a tempo debito. E’ vero che la nostra è una società fortemente politicizzata, in Venezuela tutto è politica, politica sociale, ma noi abbiamo bisogno della socializzazione della politica. La gente è stufa di scontri, di ideologia, di sfide elettorali che vanno avanti da anni. La democrazia non è solo andare a votare. Certo il voto è importante ma anche l’esercizio delle prerogative e delle responsabilità del Governo è fondamentale.
Penso che la prossima consultazione referendaria di febbraio sia un grave errore ma non possiamo fermarci, verrà il tempo di riposarsi ma non è ancora l’ora. Adesso dobbiamo batterci per godere di quel momento nel futuro e dobbiamo vincere perché se a prevalere fosse Chavez verrebbe sovvertito il principio alla base della nostra Repubblica. Scegliemmo di essere una Repubblica, l’abbiamo ratificato diverse volte, e le repubbliche sono costituite da persone libere ed eguali. Una rivoluzione che si basa sulla rielezione di un singolo Presidente è una monarchia. Abbiamo rigettato questo rischio per secoli, lo rigetteremo ancora.
Qualsiasi sia il risultato del referendum, pensa che il Venezuela cadrà in una maggiore instabilità politica e conflittualità sociale?
Nella precedente consultazione referendaria si decideva su due diversi modelli si Stato, comunismo o democrazia. In questo caso si decide solamente della rielezione del Presidente. Certamente è una questione importante ma non è la stessa cosa. Penso che queste elezioni sono più pericolose per Chavez perché se vince avrà ottenuto solo il diritto a ripresentarsi e questo non vuol dire che sarà rieletto automaticamente. Ma se perde la sua stagione politica si concluderà nel 2012.
Quale ruolo potrebbe ricoprire l’esercito se aumentassero le tensioni?
L’esercito in questi anni è stato un fattore di equilibrio tanto che Chavez ha dovuto formare una propria forza militare fuori della tradizionale catena di comando. Il presidente è impopolare all’interno degli ambienti militari. Nel centro a maggiore densità di militari, il PSUV (il partito di Chavez) è calato del 25%. Credo che l’esercito sventerebbe qualsiasi tentativo di frodare il voto o di imporre soluzioni che non rispettino il risultato elettorale. Questo certamente non basta, ecco perché dobbiamo batterci. Non penso che dobbiamo lottare per vincere perché abbiamo paura di lui e non credo che riuscirà trasformare il Venezuela in un Paese comunista. La gente non vuole il comunismo e poi non è ancora nemmeno troppo chiaro cosa sia il “Socialismo del XXI secolo”.
Chavez le risponderebbe citando le ‘misiones’. Quali sono i risultati della politica assistenzialista del presidente?
In alcuni casi i risultati sono buoni ma è la sostenibilità del progetto che manca o non è sufficiente. Prendiamo la misione Robinson: non si può dire che l’alfabetizzazione delle fasce popolari più indigenti sia stata scelta sbagliata, ma si può dire che è stata insufficiente. Abbiamo bisogno di un piano nazionale per l’educazione e non di iniziative saltuarie, dobbiamo creare qualità, formare le giovani generazioni, non basta alfabetizzare. Abbiamo le risorse per farlo, siamo un Paese in via di sviluppo ma non siamo un Paese povero. Non sono più i tempi della Cuba di Fidel!
In queste missioni viene impiegato proprio personale medico di Cuba…
Sì, è qui che lavorano i castristi. Nei primi due anni i risultati sono stati soddisfacenti per la formazione del nostro personale medico, ma adesso la spinta iniziale si sta perdendo e nelle missioni dove ci sono i cubani la gente si chiede se la cosa sia utile. La misione Barrio Adentro è stata creata per offrire assistenza sanitaria ma serve sì e no per curarti un raffreddore e poco altro. Un ospedale serve sempre! Il principio di fornire assistenza aggiuntiva non è sbagliato ma non può essere l’unica forma di assistenza. Voglio dire che le misiones non possono essere il fulcro di una politica del welfare – possono servire a gestire le emergenze ma poi c’è bisogno di una politica nazionale che fornisca servizi al cittadino. Che poi questi servizi possano o debbano essere offerti dalla mano pubblica o da quella privata dipende dai punti di vista, ma noi non abbiamo né un sistema pubblico né un sistema privato. Quella di Chavez è solo ideologia, la gente avrà sempre bisogno di ospedali.
Come farà il movimento a uscire da questo clima di scontro continuo?
Credo che sia necessario tornare ai principi. Dobbiamo comprendere che la strada per uscire dalla povertà non passa per il petrolio. Passa per il lavoro, l’istruzione e la volontà. C’è bisogno di partecipazione per comprendere che non esistono soluzioni facili. Una sola persona non può essere la risposta a un problema sociale. La solidarietà è un valore come lo è quello di dare a tutti la possibilità di raccogliere i risultati del proprio lavoro e della propria forza di volontà. Così nasce la responsabilità individuale ma anche la responsabilità collettiva.
Che significa per lei la parola “libertà”?
Avevo un professore, un professore molto conosciuto qui da noi, che ci diceva esattamente questo: “non esistono definizioni uguali per tutti della parola libertà, ma ogni essere umano sente la stessa cosa quando ascolta quella parola”.